Giovanni Spampinato. L 'Ora, 6 marzo 1972

Ragusa: industrie e serre. Pochi portafogli per molti miliardi

Radiografia delle province siciliane dopo il censimento

Già da oggi è possibile prevedere quale sarà il quadro della situazione demografica e socio-economica della provincia di Ragusa che verrà fuori dai risultati del censimento della popolazione dell’ottobre scorso. La raccolta degli ultimi dati – alcune migliaia di famiglie erano state “saltate” dai rilevatori – e le operazioni di riscontro per evitare “doppioni” o omissioni, hanno subìto nei giorni scorsi una forte accelerazione, anche in vista di eventuali elezioni anticipate. Quindi, entro non molti mesi si dovrebbe essere in possesso dei dati ufficiali complessivi, che costituiranno un utile ed importante strumento di analisi sulle condizioni strutturali della provincia.

La popolazione del Ragusano negli ultimi anni ha subìto un aumento pressoché rilevante, passando dai 158.313 abitanti della fine del 1966 ai 161.787 dell’ottobre 1971 (1’1 ,34% di incremento in 5 anni, in media lo 0,27% l’anno). Nel medio periodo, la situazione non è molto diversa: dal censimento del 19 51 risultò presente in provincia una popolazione di 239.337 abitanti; nel 1961 257.769.

In venti anni, l’aumento è cioè stato di 22.450 unità pari al 9,54%, con un incremento medio annuo dello 0,4 7%; negli ultimi 10 anni 9.018 unità, 3, 17%, incremento annuo 0,35% .

Lo spopolamento dovuto ad una emigrazione rilevante, seppure meno massiccia che in altre province siciliane, viene confermato da un altro dato: dal 19 51 ad oggi sono emigrati dalla provincia non meno di 25.000 lavoratori, cioè oltre 1’11% dell’intera popolazione censita nel 1951. Il numero dei disoccupati negli ultimi anni si è aggirato sulle 5-6 mila unità.

I numeri, nella loro nuda essenzialità, documentano una situazione economicamente pesante, dai drammatici risvolti umani e sociali.

Ma le cifre ufficiali non dicono tutto; non possono dire le profonde trasformazioni che hanno stravolto i paesi, le campagne; non dicono le speranze e le delusioni, la rassegnazione e la rabbia e le lotte della gente per sopravvivere, per non emigrare. Dire che l’occupazione nelle attività produttive, nell’agricoltura come nella industria, anziché accrescersi è diminuirà; dire che in alcuni paesi è più la ricchezza che si consuma che quella che si produce; dire che è aumentata la popolazione, ma sono diminuiti i posti di lavoro, apre gli occhi su un processo ancora oggi in atto, su uno sconvolgimento sociale ed economico di cui la provincia subisce ancora le conseguenze, ma non basta a spiegare cosa si è trasformato nella vita di tutti i giorni, nei rapporti fra gli uomini.

La zona montana

Vista zona per zona, comune per comune, la situazione si chiarisce meglio. La zona montana – comuni di Monterosso, Giarratana e Chiaramonte – è sempre stata tra le più povere. La popolazione è diminuita in percentuale e in cifre assolute. Chiaramonte in ve n t anni ha visto partire oltre un quarto della sua popolazione. Oggi ha 9 mila abitanti, ancora dieci anni fa ne aveva 10mila, nel 1951, 11.364. Se ne sono andati 2.300 abitanti in meno di venti anni, dato che sommato al mancato incremento naturale della popolazione – prevalenza delle nascite sulle morti – dà le dimensioni di massa dell’esodo. I contadini proprietari di minuscoli appezzamenti di terra sono fuggiti a nord o si sono trasformati in braccianti o manovali.

I paesi in pochi anni hanno perduto il loro volto, i giovani sono pochi. Intere famiglie vivono di pensioni. Molti di quelli che prima lavoravano la terra hanno aperto piccole botteghe, con i soldi fatti al nord o all’estero. Il settore terziario (commerci o e servizi) prevale per numero di persone occupate su quello produttivo (industria e agricoltura); se di industria si può parlare: poche botteghe artigiane dalla vita stentata; e all’attività edilizia bastano un mastro e pochi manovali, per riparare le vecchie casette o per costruirne qualcuna agli emigrati.

Le campagne abbandonate, secondo le direttive del “memorandum Mansholt”, sono destinate al rimboschimento. Ci sarebbe lavoro per centinaia di braccianti oggi disoccupati: ma i soldi dell’ESA restano nelle banche … L’esasperazione cresce, e anche in questi giorni i braccianti, gli edili, gli studenti protestano per la lenta agonia dei loro paesi.

L’apertura della nuova strada a scorrimento veloce Ragusa-Catania, la cui realizzazione procede con esasperante lentezza, taglierà Monterosso e Giarratana fuori da ogni traffico di transito, rendendo totale l’isolamento.

Ma l’agricoltura non ha sorte migliore nella fascia costiera, la zona del miracolo dell’oro verde, (come è stata pittorescamente e non senza ottimismo definita). L’intraprendenza e l’intelligenza di contadini-braccianti che, veri pionieri di questa nuova incredibile “corsa all’oro”, hanno trasformato il territorio per decine di chilometri, ha portato ricchezza nelle campagne del litorale. Oggi a chi va verso il mare si presenta lo spettacolo del luccichìo di decine di piccoli stagni di luce, le serre coperte con fogli di spessa plastica, che producono primaticci per un giro d’affari di miliardi. Da Vittoria, da Scicli, da Santa Croce partono colonne di autotreni carichi di pomidoro, peperoni, melanzane, garofani. È sorta una nuova figura sociale, quella del compartecipante, a metà bracciante, a metà imprenditore.

Molti dei vecchi contadini che zappavano piccoli appezzamenti sabbiosi da cui traevano appena di che vivere sono oggi proprietari di serre, qualcuno di loro vive di rendita.

Ma il “miracolo” nasconde realtà dolorose e drammatiche. In tanto, non ha arrestato l’emorragia di giovani, che non accettano le dure condizioni di lavoro: nelle serre si muore, si resta invalidi, perché i fertilizzanti, gli sterilizzanti, l’alta temperatura e l’umidità le rendono un inferno, l’ambiente somiglia a quello delle fabbriche, l’aria è pesante, micidiale, e non c’è protezione contro i rischi. Così a lavorare nelle serre vengono braccianti dalle province vicine, dai paesi più poveri: da Acate, da Gela, da Niscemi.

Ma poi i miliardi delle serre non restano a Vittoria, a Scicli, a Santa Croce, non producono nuova ricchezza, nuovo lavoro. I miliardi prendono la strada delle banche, vengono rastrellati dal monopolio chimico dei fertilizzanti, degli sterilizzanti, della plastica. Non ci sono industrie di conservazione o di trasformazione, vicino alle serre. Così a Vittoria c’è ancora la stessa popolazione di dieci anni fa: nel ’61 gli abitanti erano 45.035, nel ’66 46 .393, oggi poco più di 47 mila.

L’unico centro industriale d i qualche rilievo è il capoluogo. L’ABCD occupa 850 dipendenti (nel ’67, prima che arrivasse l’ENI, erano 1.150). Ed è anche il centro burocratico ed amministrativo.

Ragusa vive soprattutto degli stipendi degli impiegati. Gli operai hanno un’incidenza sempre minore, l’ABCD spende miliardi per razionalizzare gli impianti, e diminuisce l’occupazione. Gli altri operai sono dispersi in una serie di piccole e piccolissime industrie, e hanno da risolvere gli elementari problemi della conservazione del lavoro. Gli edili negli ultimi tempi hanno vissuto l ‘esperienza di una lunga disoccupazione, con i piani regolatori bloccati.

Brusco risveglio.

Il miracolo del petrolio si è risolto per i Ragusani in una grossa delusione. L’economia non è “saltata” solo grazie alla solidità del vasto ceto medio contadino ragusano, i massàri, e dei commercianti di origine contadina. Massàri e commercianti alieni da avventure, da speculazioni azzardate, che hanno guardato con scetticismo il decennio dell’oro nero, quando il denaro circolava abbondante, il Comune aveva il bilancio in pareggio – caso unico in Italia – grazie alle royaltes pagate dagli Americani, e si costruivano orribili palazzoni, si favoleggiava di industrie manifatturiere, di raffinerie…

Il risveglio fu brusco: finita la fase d’impianto, il lavoro diminuì di colpo, il petrolio andava dritto dritto ad Augusta con l’oleodotto, a Ragusa non se ne sentiva ne m meno l’odore.

Gli ex braccianti divenuti manovali si trovano improvvisamente senza lavoro. Ma anche per i prudenti massari si apriva una fase difficile: si erano da sempre considerati ceto privilegiato, da loro era espressa la locale classe dirigente, ed ora una nuova borghesia impiegatizia li scalzava dalle loro posizioni di prestigio sociale e di potere.

E si aggiungeva la crisi agricola, e i giovani non erano più disposti a stare in campagna. Tuttavia le campagne dell’altipiano oggi non sono deserte come quelle della montagna, l’allevamento resiste, i massari non sono scomparsi. Ma gli affittuari sentono che qualcosa è irrimediabilmente cambiato, l’incanto di una vita patriarcale, la soddisfazione individualistica del benessere economico, il prestigio sociale di categorie egemoni sono scomparsi. Si sono accorti che loro non sono autonomi, hanno sentito il peso dello sfruttamento dei padroni: e per la prima volta hanno lottato insieme, per la riforma dell’affitto, contro gli agrari, e hanno cominciato a guardare con occhio diverso i braccianti, i “garzoni” di un tempo, e gli operai, da sempre negazione vivente del loro individualismo, del loro prudente conservatorismo.

Il proletariato industriale, frantumato in tante piccole aziende, trova difficoltà a ritrovarsi classe. Il clientelismo la necessità di risolvere giorno per giorno i problemi di un’occupazione precaria, frustra in alcuni la volontà di lottare per cambiare. Gli operai dell’ABCD, sempre meno numerosi, sempre meno giovani, si sentono spesso – ed obiettivamente sono – ceto privilegiato, per il semplice fatto di avere un lavoro sicuro.

Ma nei giovani, nei lavoratori come negli studenti, la volontà di cambiare, di uscire dalle sacche del sottosviluppo economico e sociale è forte, e si è creata una saldatura reale fra la fabbrica la campagna e la scuola.

Giovanni Spampinato