Giovanni Spampinato. L'Ora venerdì 7 luglio 1972

Ragusa. Per il delitto Tumino indagini a zero

RAGUSA, 7 luglio – Molte persone, una decina o forse più, hanno visto l’ing. Tumino in compagnia del suo assassino. Tutti descrivono il misterioso personaggio come un giovane di non più di trent’anni, col viso affilato, con gli occhiali, vestito di scuro.

Il giovane – sul fatto che sia l’assassino, o uno degli assassini, non dovrebbero esserci dubbi: altrimenti, per quale motivo dovrebbe nascondere la propria identità? – trascorse con Angelo Tumino tutta la giornata del 25 febbraio. La sera, tra le 19 e le 21, secondo l’autopsia, il professionista fu prima tramortito con un colpo di martello alla tempia destra, e poi freddato con un colpo di pistola calibro nove sparato a bruciapelo al centro della fronte. Poco dopo il delitto, l’auto dell’ingegnere fu abbandonata in una via periferica del capoluogo, con le chiavi attaccate al cruscotto e lo sportello appena accostato. Il cadavere fu trovato casualmente l’indomani pomeriggio da una donna che stava portando il pane al padre in campagna in una trazzera a pochi chilometri da Ragusa. Chi aveva scelto il posto, sapeva il fatto suo: se non si fosse trovata a passare la donna, il corpo sarebbe rimasto lì per giorni, forse per settimane.

Ma Angelo Tumino fu ucciso nella trazzera di contrada Ciarbèri dove fu trovato il cadavere? O vi fu portato già morto? I contadini dicono di avere sentito una macchina passare a grande velocità tra le 19 e le 20. Anzi, un uomo che procedeva a piedi, e la incrociò, per poco non fu travolto. Quando l’ignoto automobilista lo scorse, sepnse i fari, e procedette per un tratto alla cieca. Ma la sera, verso le 11, lo stesso rumore di un motore esasperato meravigliò gli abitanti del luogo.

Il cadavere fu lasciato la prima o la seconda volta? Il delitto fu compiuto sul posto? Come mai il corpo appariva rivestito e sistemato con cura? Poteva un uomo solo spostare il cadavere dell’ingegnere, che pesava più di cento chili?

Quando giunsero i carabinieri, l’identificazione fu fatta attraverso i documenti: il volto era sfigurato dal grosso foro al centro della fronte (il proiettile era fuoriuscito dalla nuca, e non è stato ritrovato). Un conoscente, un coltivatore diretto del posto, non voleva credere all’evidenza. Telefonò a casa dell’ingegnere, e gli rispose il figlioletto Marco, di 9 anni, che abitava solo col padre. Il bambino rispose che il padre la sera precedente non era rientrato: era la conferma. In casa, notò con meraviglia il “massaro”, col bambino c’erano altre persone.

Telefonò ai fratelli del povero professionista, dicendo che venisse qualcuno, perché era successa una disgrazia. La cognata di Tumino a sua volta telfonò al bambino. Le rispose una voce d’uomo. Meravigliata, la donna chiese: “Ma lei chi è?”. Era Roberto Campria, il figlio del presidente del tribunale, che non seppe giustificare in maniera plausibile la sua presenza. Sembra che stesse sistemando delle carte.

La famiglia di Angelo umino si chiede ancora come mai il giovane Campria, quando seppe dal bambino che l’ingegnere non era rientrato la sera precedente, e che mancava da casa da 24 ore (circostanza insolita, perchè il fatto di star solo col figlioletto lo obbligava a rientrare ad ogni costo) non di preoccupò di accertarsi se era successo qualcosa.

Da allora – e sono trascorsi quattro mesi – le indagini non sono approdate a nulla. Il Procuratore della Repubblica ha dichiarato che tutto l’incartamento è ancora nelle sue mani, e che è in corso un supplemento di indagini.

Dicevamo che molte persone hanno visto quel tragico giorno di quattro mesi fa l’ingegnere Tumino in compagnia del giovane che con ogni probabilità lo ha poi ucciso.

Oltre al benzinaro presso cui fecero rifornimento, poco dopo le 19, il quale afferma che, qualora vedesse l’individuo, lo riconoscerebbe senza ombra di dubbio (dopo il delitto fu messo a confronto con una sola persona), ci sono una vicina di casa e numerosi contadini.

La mattina, Tumino e il suo misterioso accompagnatore, che sedeva nel sedile posteriore della sua NSU Prinz (il sedile accanto al posto di guida era stato rimosso per ricavare un ampio planale di carico per il materiale di antiquariato, del cui commercio da qualche tempo l’ingegnere si interessava), e con cui dimostrava di essere in rapporti di fraterna amicizia, girarono a lungo per le campagne attorno al posto dove la sera sarebbe stato ucciso. Cercavano una casa in cui avrebbe dovuto trovarsi un vecchio mobile che Tumino aveva intenzione di rilevare. (Ma sembra che il mobile non esista; chi aveva inventato quella che con ogni probabilità era solo una trappola mortale?).

Chiesero informazioni a molti contadini. Quelli che hanno parlato – alcuni hanno avuto paura; una persona molto vicina alla famiglia dell’ucciso ha rivelato solo nei giorni scorsi di averlo visto anche lui – descrivono l’amico di Tumino come un giovane magro, vestito di scuro, con gli occhiali.

La stessa descrizione pare ne abbia fatta una vicina di casa che lo vide uscire nel primo pomeriggio. Il figlioletto gli chiese quando sarebbe rientrato; l’ingegnere lo rassicurò che sarebbe tornato la sera.

Le indagini, dicevamo, a quattro mesi dal delitto sono al punto di partenza. Le ipotesi che si erano fatte all’inizio sono cadute una dopo l’altra. Il movente, si dice, può esser ricercato in motivi d’interesse, o anche di gelosia.

La gente però a Ragusa col passare del tempo, invece di disinteressarsi della vicenda, manifesta una preoccupazione sempre maggiore. Sembra impossibile che la macchina della giustizia, altre volte così efficiente, si sia inceppata in un caso che non dovrebbe presentare troppi punti oscuri. E’ possibile ci si chiede, che un assassino continui a circolare in libertà? E’ possibile che un delitto così efferato rimanga impunito?

Ad accrescere gli interrogativi è poi la delicata situazione in cui è venuto a trovarsi il giovane figlio del presidente del tribunale, che dagli inquirenti fin dall’inizio fu interrogato per chiarire molte circostanze poco comprensibili (perché si trovava a casa dell’ucciso? perché rovistava l’appartamento cercando qualcosa? perché chiese ai parenti di parlare solo col bambino, al quale disse anche: “Se ti chiedono di papà, devi dire che è stato rapito”?; perché si muoveva come chi cerca un alibi, quando nessuno sospettava di lui?

I due quotidiani isolani del mattino hanno preferito non fare il nome di Roberto Campria. Ma la gente sa a Ragusa che nessuna smentita ufficiale è venuta a quanto abbiamo scritto fin dall’inizio sul suo conto: che cioè era stato messo sotto torchio dagli inquirenti, e che su di lui pesavano gravi sospetti.

Tutto ciò ha alimentato nell’opinione pubblica una fin troppo legittima ansia di conoscere la verità, ansia che ogni giorno di più appare venata di scetticismo.

Molti dicono che presto verrà messo tutto a tacere, e definitivamente. Tutto ciò, con non molto giovamento per la fiducia dei cittadini nell’amministrazione della giustizia.

A fugare preoccupazioni e dubbi non contribuiscono certo le notizie che si hanno sulla personalità dello stesso presidente del tribunale. oprattutto negli ambienti giudiziari e forensi si ricorda l’impressione suscitata dalla lettura di una bozza di relazione della Commissione parlamentare antimafia, pubblicata il 23 maggio dello scorso anno in un inserto del settimanale “L’Espresso”.

I commissari, che sull’amministrazione della giustizia avevano parlato con numerosi magistrati della Sicilia occidentale, occupandosi del tribunale di Sciacca e del suo presidente di allora, così si esprimevano:

“Il presidente del tribunale, dott. Saverio Campria, oggi trasferito alla più importante sede di Ragusa, non ha manifestato molta energia né interessamento per i problemi oggetti della conversazione con lui avuta dai commissari, mostrando non solo di non conoscere la situazione del suo circondario, ma di ignorare quanto in realtà avveniva intorno a lui, con non molto giovamento in verità per il prestigio e l’autorità della magistratura.

Rapporti di particolare freddezza sono stati poi rilevati tra il presidente del tribunale e il procuratore della Repubblica, dott. Taddeo Purpura, presumibilmente per il carattere e il temperamento accessivamente chiuso del primo.

Sembra doveroso segnalare al Consiglio superiore della Magistratura l’opportunità che nel conferimento di uffici direttivi in Sicilia, la cui efficienza costituisce il presupposto e la condizione di una positiva azione contro la mafia, si tenga il massimo conto soprattutto delle abitudini e della personalità dei magistrati da assegnarvi.

La Commissione parlamentare di inchiesta non può ignorare o fare a meno di rappresentare simili inconvenienti, ai quali può anche risalire in determinate circostanze quella mancanza di interessamento, di zelo, di energia, che ha tanto contribuito in passato alle affermazioni di situazioni e di ambienti mafiosi”.

Data questa situazione, per fugare ogni dubbio e per ridare ai cittadini fiducia nella legge e nell’amministrazione della giustizia, non sarebbe forse opportuno trasferire le indagini ad un magistrato esterno al tribunale di Ragusa, possibilmente non siciliano?