Ricordo di Vittorio Nisticò. Con il vascello dell'Ora sfidò la flotta della mafia

E’ morto Vittorio Nisticò

Questo intervento è stato pronunciato lunedì 1 marzo 2010 a Palermo a Palazzo Steri nel corso della giornata di studi promossa da: Istituto Gramsci siciliano;  Ordine dei giornalisti di Sicilia; Università degli Studi di Palermo; Biblioteca centrale della Regione siciliana. L’intervento sarà pubblicato in un volume insieme agli altri interventi

Ho avuto la fortuna di conoscere da  vicino Vittorio Nisticò. L’ho incontrato la prima volta quando dirigeva L’Ora ed io ero l’ultimo cronista della sua redazione. Negli anni successivi ho avuto molte occasioni di incontrarlo sul lavoro e  fuori dall’ambiente di lavoro. L’ho frequentato con continuità per trent’anni, fino ai suoi ultimi giorni. Ho ammirato le qualità che ne hanno fatto un direttore leggendario, ho scoperto la parte tenera della personalità che teneva gelosamente nascosta, e gli ho voluto bene. Avere la sua amicizia e le sue attenzioni è  stato un privilegio.Vittorio aveva l’età di mio padre e questo ha contato nella relazione fra noi. Come ha contato la tragica storia di mio fratello Giovanni. Negli ultimi anni ho frequentato con regolarità la casa di Vittorio e Jole. Abbiamo parlato di tante cose, come succede fra persone che hanno piacere di incontrarsi e tengono ciascuno al parere dell’altro. Quel dialogo mi ha dato un’idea più precisa di Vittorio. Ed è di questo che voglio parlare.

Vittorio aveva  un profilo inconfondibile. Era magro, slanciato, biondo, elegante. Aveva un gusto d’altri tempi per stoffe e colori. Aveva un piacere infantile per le gioie semplici della vita, e quella balbuzie che dava lo spunto a facili caricature. Raramente riusciva a nasconderla, e in certi momenti era imbarazzante conversare con lui. Questo era l’aspetto esteriore. Ma l’identità di Vittorio è definita soprattutto dalle sue idee e da come ha affrontato la vita. Cresciuto in una famiglia di professionisti di Cardinale, piccolo centro in provincia di Reggio Calabria, diventò comunista nel Dopoguerra, conquistato dal progetto del “partito nuovo” di Palmiro Togliatti. Era un comunista eretico, insofferente dei dogmi ideologici e di ogni disciplina di partito, e non lo nascondeva. Aveva una mente politica e una vera passione per la politica. Ma non era attratto dalla carriera politica. Era un intellettuale illuminista, prima ancora che gramsciano e credo che ciò spieghi più di ogni cosa il forte legame che ebbe con un altro eretico e irregolare, Leonardo Sciascia, fino alla morte dello scrittore.

Vittorio aveva scelto il giornalismo per lo stesso motivo per cui Sciascia aveva scelto la letteratura: per comprendere e descrivere il lato nascosto della realtà e per manifestare le proprie idee con la forza dei fatti. Per Vittorio dunque il giornalismo non era un mestiere, ma una forma di espressione culturale e di militanza civile, un potente strumento di conoscenza della realtà e di demistificazione dei giochi politici e delle falsità del potere. Spendeva tutte le energie nel giornalismo, ma non era mai pienamente soddisfatto del giornale che aveva appena chiuso in tipografia o dell’editoriale che aveva scritto e che aveva modificato fino all’ultimo momento. Pensava che avrebbe dovuto, avrebbe potuto fare meglio. E pretendeva che gli altri fossero altrettanto esigenti con se stessi.

Lo ricordo così. Curioso di scoprire ogni retroscena, frenetico, indaffarato, molto esigente verso gli altri e soprattutto con sé stesso, insoddisfatto anche se aveva appena segnato uno dei suoi memorabili goal.

Aveva l’ambizione di primeggiare e ci riusciva impiegando alcune  doti che voglio ricordare:

1)  la tenacia: era duro avere alle calcagna uno come lui!

2) il coraggio personale con cui ha affrontato pericoli e minacce e ha fronteggiato personaggi potenti, in tribunale e nella vita.

3) l’abilità di scegliere collaboratori di alto livello e di sommare le loro intelligenze;

3) la capacità di organizzare il lavoro degli altri, costringendo a collaborare persone molto diverse fra loro, motivandole e allo stesso tempo mettendole in competizione fra loro: penso in particolare a Marcello Cimino, Aldo Costa, Mario Farinella, Etrio Fidora, Bruno Carbone… Ma anche a Mauro De Mauro, che legava poco con gli altri, che aveva un’altra storia e provenienza, che Vittorio aveva voluto nel suo giornale e con il quale aveva stabilito un’amicizia personale.

Ma qual era la più grande dote di Vittorio, la qualità geniale che ne ha fatto un vincente, il mitico direttore a cui perfino Elio Vittorini, scrittore celebre ed affermato, voleva soffiare il posto? Io credo fosse la straordinaria intelligenza, assolutamente unica, una capacità che lo ha reso un personaggio affascinante e un Maestro indimenticabile. Era dotato di un’intelligenza duttile, dialettica, analitica, ed anche elaborativa che si rivelava nella genialità dei titoli di prima pagina, nella forza dei suoi editoriali e, soprattutto nel contraddittorio. Nel corso di una discussione, Vittorio ascoltava le obiezioni dell’ interlocutore, coglieva la parte positiva delle critiche che gli venivano rivolte e faceva suoi gli elementi positivi incorporandoli all’istante nella sua argomentazione. Così riusciva a rafforzare il suo punto di vista e spiazzava gli interlocutori.

Vittorio, naturalmente, aveva i suoi difetti, e sarebbe difficile trascurali. Negli anni d’oro in cui guidò L’Ora aveva un carattere irascibile, reazioni umorali, e un piglio autoritario che atterriva i giovani redattori. Bisogna dire, a sua parziale discolpa, che in quegli anni era divorato dall’ulcera e ciò influiva sul suo umore. Ancora oggi molti che hanno lavorato con lui ricordano  i suoi eccessi e lo raffigurano nello stereotipo del capo feroce, onnipotente e incontentabile, che per altro era a quei tempi una figura diffusa al vertice dei giornali e in ogni incarico gerarchico di responsabilità, dal capufficio in su. Vittorio rientrava nel cliché, ma con una dose di umanità che ne mitigava la ferocia. Credo  considerasse necessario quell’atteggiamento per governare le esigue truppe nel fuoco dello scontro in cui aveva lanciato il piccolo giornale. Considerava l’autorità un ferro del mestiere. Tanto è vero che quando lasciò la direzione dell’Ora diventò un altro uomo. Mostrò presto un atteggiamento più mite, e col tempo rivelò una dolcezza insospettata.

Posso testimoniare che da molti anni non era più l’uomo burbero, severo, inavvicinabile dei tempi in cui dirigeva il giornale. Anch’io, nel 1974, fui oggetto di un suo attacco che mi sembrò spropositato e umorale. Mi convocò e mi annullò le ferie di punto in bianco alla vigilia della partenza, senza neppure darmi una spiegazione. Ero appena approdato alla redazione di Palermo. Avevo tutto da perdere a ribellarmi. Ma anch’io avevo il mio carattere, e gli tenni testa. Contrariamente a tutte le previsioni,  me la diede vinta. Credo che proprio da quello scontro impari sia nato il rapporto speciale che c’era fra noi.

Nel 1978 l’inavvicinabile direttore mi concesse un grande onore. Accadde quando, per  scongiurare la chiusura del glorioso giornale, fondò una cooperativa di nove giornalisti. Riuscì a farsi affidare la testata in comodato, ovvero in prestito gratuito, e la cooperativa “Giornale L’Ora” gestì il giornale per dieci anni, sia pure al prezzo di enormi sacrifici per giornalisti e poligrafici. Vittorio mi volle con sé fra i fondatori della cooperativa. Lui era il presidente, l’editore, il motore propulsore, il volto pubblico, il garante politico di tutta l’operazione. Insomma, era tutto. Io, invece, ero il giovane della compagnia, il cronista di 28 anni che tre anni prima gli aveva tenuto testa. Ma soprattutto ero il fratello di Giovanni: di un ragazzo che era stato il corrispondente dell’Ora da Ragusa, aveva fatto alcuni scoop e aveva pubblicato clamorose inchieste sognando di essere chiamato da Nisticò in quella redazione di Palermo.

Giovanni era considerato una giovane promessa. Aveva 25 anni, il 27 ottobre 1972, quando fu ucciso come un cane rabbioso, perché scriveva “troppo”. Quell’omicidio fu un trauma e un lutto per tutto il giornale. Vittorio non aveva dimenticato la morte di Giovanni, ma non riusciva a parlarne. Neanch’io, in quegli anni, riuscivo a parlarne. Dunque non parlavamo di Giovanni. Ma sapevo che prima o poi ne avremmo parlato.

I nostri contatti divennero più intensi quando mi  trasferii nella capitale. Lavorai alla redazione romana dell’Ora dal 1980 al 1991. La piccola redazione si trovava in Piazza di Pietra, a due passi da Montecitorio, in un appartamento che ospitava anche l’ufficio di Vittorio. Il ponte di comando del presidente-editore era una stanzetta, ben arredata, ma piccola e buia che prendeva luce dal cortile interno. La stanza di Vittorio era tanto piccola che aveva dovuto rinunciare al progetto di piazzarci la sua storica scrivania di direttore, alla quale era affezionato e che aveva fatto venire da Palermo, nel 1976, quando aveva lasciato l’incarico di direttore e si era trasferito stabilmente a Roma.

In Piazza di Pietra i rapporti ravvicinati erano inevitabili. Andavamo spesso insieme a prendere il caffè o a Montecitorio. Vittorio ci andava per incontrare i deputati amici del giornale, che lo sostenevano nella grande impresa. Li incontrava in Transatlantico fra una votazione e l’altra. Detestava restare solo durante quelle pause. Spesso lo accompagnava Orazio Barrese, che era il veterano della cronaca politica e il capo della redazione. Poi, sempre più spesso, fui reclutato anch’io. Oltre a me e Orazio, nella redazione romana, lavoravano stabilmente altri tre giornalisti (Giacinto Borelli, Cristina Fratelloni e Giulio Goria).  Numerosi collaboratori passavano per consegnare il loro “pezzo” che il nostro telescriventista Ivan perforava e trasmetteva a Palermo. Anche i nostri articoli venivano trasmessi così. Il fax arrivò qualche anno dopo, e fu una rivoluzione. Era un gigantesco Infotech… Ma questa è un’altra storia.

A Roma  incontravo Vittorio tutti i giorni. Spesso lo accompagnavo nei suoi incontri politico-editoriali. A volte pranzavamo insieme. Mi portava da Fortunato al Pantheon, dov’era di casa da molti anni. Era un ristorante di prestigio, uno dei più frequentati dai politici. Giovanni Spadolini, allora presidente del Consiglio, aveva un tavolo fisso, e intorno pranzavano ministri, sottosegretari, leader di partito, firme del giornalismo. Fortunato aveva una speciale attenzione per Vittorio, conosceva i suoi gusti e Vittorio si affidava ai suoi consigli. I piatti forti erano il pesce e varie specialità della cucina toscana, emiliana, piemontese e siciliana… Altre volte andavamo nelle trattorie. Vittorio aveva una vera passione per le specialità della cucina romana. Il cervello fritto era un piatto per cui andava pazzo.

Per me il trasferimento a Roma fu un grande cambiamento. D’un colpo mi trovai a fare il cronista politico a diretto contatto con i protagonisti che fino allora avevo visto solo in televisione! E anche Roma fu per me una grande scoperta. Vittorio,  invece, quel mondo lo conosceva bene da molti anni. Quei giri furono per me una vera iniziazione e credo che Vittorio godesse nel fare la parte dell’anfitrione. Gustava il mio impaccio e la mia meraviglia. Faceva anche qualche stranezza delle sue. Veniva al lavoro in macchina e, a volte, a fine mattinata insisteva per darmi un passaggio. Io facevo resistenza. Ma se voleva raccontarmi qualcosa le mie proteste non valevano nulla. Salivo in macchina, e mi lasciava vicino a casa sua… Io abitavo da un’altra parte. Era una bella complicazione, ma non protestai mai.

Fu così che, col tempo, conquistai la sua confidenza. Nacque un rapporto intenso, forte che è rimasto  tale anche dopo che, nel 1991, lasciai L’Ora e, con il suo aiuto, passai all’ANSA.

Come dicevo, frequentandolo ho scoperto un Vittorio diverso da quello che di solito viene descritto, sia perché l’ho visto in una veste privata, sia perché dopo aver lasciato il timone del giornale, e ancor più nella vecchiaia, Vittorio è cambiato molto. E’ diventato l’opposto del terribile direttore che scagliava il portacenere al cronista maldestro. Vittorio si è addolcito, è diventato premuroso verso gli altri. Per me è stato un consigliere affettuoso e un secondo padre.

Otto anni fa, cominciai a sentire la necessità interiore di restaurare la memoria di mio fratello Giovanni. Nessuno ricordava più perché era stato ucciso. Dicevano: “Povero ragazzo, chi glielo faceva fare?”. Giovanni aveva dato una notizia importante, vera, sacrosanta, e per questo era stato isolato da tutti, anche dagli altri giornalisti, e alla fine era stato ucciso dal figlio di un potente magistrato, un personaggio equivoco sospettato  di un omicidio, come aveva scritto Giovanni. Il sospettato aveva lodato il silenzio degli altri giornalisti e aveva definito la cronaca di Giovanni una insopportabile provocazione. Giovanni aveva commentato: “Qui la stampa è un sistema di omertà controllata”.

Aveva fiutato il pericolo, aveva lanciato l’allarme, ma non aveva fatto un passo indietro per mettersi al riparo. Non voleva cedere alla paura, non gli sembrava dignitoso per un giornalista dell’Ora. Era stato più giornalista degli altri, di quelli che ora dicevano “povero ragazzo” e non dicevano che era un giornalista. Mi faceva male. Vedevo la sua figura sbiadire di fronte alle mistificazioni, all’indifferenza e all’oblio, e volevo impedirlo.  L’impresa era ardua. Esitavo a incamminarmi su quella strada. Mi confidai con Vittorio, che mi incoraggiò, fu la mia spalla. Se alla fine sono riuscito almeno in parte a raggiungere il mio scopo pubblicando due libri, lo devo molto al suo incoraggiamento, alla sua disponibilità a leggere i materiali grezzi che producevo. Aveva capito quale tarlo mi rodeva: un senso di smarrimento inesauribile per non aver capito, a suo tempo, in quale terribile trappola stava cadendo mio fratello. Perché non lo avevo capito? Perché neppure gli altri lo avevano capito? Vittorio sapeva bene che indagavo anche sulle sue colpe e che non lo avrei assolto facilmente, come non riuscivo ad assolvere me stesso. Ma non pensò nemmeno per un istante di fermarmi. In fondo anche lui cercava quella risposta.

A novembre del 2002 mossi i primi passi del viaggio nella memoria familiare. Vittorio mi accompagnò nella mia Ragusa, dove non era mai stato prima. Partecipò al convegno che io avevo voluto organizzare a tutti i costi per celebrare il 35.mo anniversario della morte di mio fratello. Vennero anche Vincenzo Consolo ed Emanuele Macaluso, e la sera a tavola parlarono dei vecchi tempi. Il mio vecchio direttore aveva 82 anni. Aveva appena pubblicato il suo straordinario libro di ricordi “Accadeva in Sicilia, gli anni ruggenti dell’Ora di Palermo”, Sellerio Editore 2001. Quella sera, a Ragusa, per la prima volta, riuscì a parlare dell’angoscia e del senso di smarrimento con cui, nel 1972,  aveva accolto la notizia della morte di mio fratello. Disse:

“Il 27 ottobre del 1972, due anni dopo i dolorosi fragori del “caso De Mauro”, vanificatosi nel nulla,  l’uccisione di Giovanni Spampinato scaricò addosso alla comunità del Giornale L’Ora un altro fardello di pena e di lutto. Ma aggiunse anche al giornalismo un’altra pagina autentica, essenziale nella sua semplicità, e insieme epica, da consegnare alla storia nazionale.

Giovanni era il più giovane e il più promettente dei nostri corrispondenti. Faceva parte della generazione arrivata da noi sull’onda del Sessantotto. Visse una straordinaria avventura: di cronista impegnato fino al punto di pagare col sangue l’esercizio di un giornalismo fatto di passione civile e di coraggio.

Ricordo ancora la redazione, tesa e quasi ammutolita, preparare l’edizione con la notizia della sua uccisione. Il nostro titolo a tutta pagina fu: “Assassinato perché cercava la verità”. Una constatazione comune attraversò come un lampo i nostri pensieri ed io ne accennai nel breve editoriale che improvvisai sul bancone della tipografia: ‘Ancora il tragico segno della violenza lungo il duro cammino di questo giornale…’.

L’emozione per l’uccisione del giovane Spampinato fu enorme. Se ne ebbe un significativo eco anche nel mondo giornalistico, solitamente cinico. Sull’onda di quell’emozione, alla fine del 1972 i giornalisti di Milano assegnarono alla nostra redazione il celebre Premiolino. Quel premio era dedicato anche a Giovanni. Al Bagutta, dove ritirai quel premio accompagnato da Vincenzo Consolo, il nostro piccolo giornale visse un attimo di gloria grazie a Giovanni Spampinato. Onore, io dico, perciò a lui, alla sua  famiglia e alla splendida sinistra che Ragusa ha espresso. In fondo Giovanni era figlio dell’una e dell’altra”.

La mia strada si incrociò con quella di Vittorio, per la prima volta, un anno dopo la morte di mio fratello. Lui era il mitico direttore dell’Ora, ed io un ragazzo di 23 anni che studiava ingegneria e aveva deciso di abbandonare l’università per diventare  giornalista. Gli scrissi una lettera: voglio fare il corrispondente dell’Ora da Ragusa, come mio fratello.  Lui mi mise alla prova. Mi concesse lo stesso status di precario, la stessa paga misera e incerta che era riservata a Giovanni e a tutti i corrispondenti di quel piccolo giornale perennemente in bolletta. A Nisticò non dissi perché volevo fare lo stesso lavoro di mio fratello. Volevo scoprire l’assurda dinamica che lo aveva stritolato, e pensavo che avrei potuto farlo solo dall’interno. Non glielo dissi perché quella motivazione non mi era allora così chiara da poterla esporre. Ma probabilmente Nisticò la intuì. Mi mise alla prova, e un anno dopo mi chiamò alla redazione di Palermo per proseguire l’esperienza  e realizzare il sogno che mio fratello aveva  intensamente coltivato.

Ho raccontato recentemente quella esperienza nel libro “C’erano bei cani ma molto seri”. In alcune pagine ho descritto con quale cura Vittorio coltivava il vivaio della redazione. Ho descritto l’atmosfera di quello straordinario collettivo di lavoro che trovava motivazione e identità nella forte personalità del direttore che era ancora negli anni migliori, ma era già un leone ferito, orgoglioso e alla stesso tempo provato dalla morte di tre suoi cronisti di punta.

Il primo colpo avvivò il 5 maggio 1960. Fu ucciso Cosimo Cristina, da quattro anni corrispondente dell’Ora da Termini Imerese e vivace collaboratore di varie testate. “Aveva 24 anni e denunciava i rapporti fra la mafia e i ‘colletti bianchi di Termini Imerese. Un giorno fu trovato morto lungo i binari della ferrovia. I magistrati archiviarono rapidamente il caso come suicidio, non ordinando neppure l’autopsia. I preti decisero di non celebrargli il funerale. Cosimo subì la più terribile delle ingiustizie: quella di morire giovane con una perenne condanna all’oblio”, scrive Luciano Mirone, il giornalista free lance siciliano che con il suo bellissimo libro- inchiesta “Gli insabbiati- Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza, Castelvecchi, 2009, ha fatto più di chiunque altro per strappare all’oblio il ricordo di Cosimo e di tutti gli altri giornalisti uccisi in Sicilia. Nel 1966, Angelo Mangano, il vicequestore di Palermo che catturò Luciano Liggio, riaprì il caso di Cosimo Cristina con un clamoroso rapporto indicando fra i mandanti un consigliere comunale democristiano e i suoi amici mafiosi di Termini legati al boss Giuseppe Panzeca, capo della commissione provinciale di Cosa Nostra di Palermo, che in quegli anni organizzava gli sbarchi di stupefacenti proprio nelle spiagge di Termini. Ma nel 1971, al processo quelle accuse caddero e gli imputati furono assolti.

A settembre del 1970 sull’Ora cadde il macigno della scomparsa tuttora misteriosa di Mauro De Mauro, che gettò il giornale in una situazione di angoscia e impotenza testimoniata dal quel drammatico titolo: “Aiutateci”. La scomparsa di De Mauro offrì il destro ai nemici del giornale che cercarono di mettere L’Ora sul banco d’accusa. Il giornale e il suo direttore in prima persona furono costretti a difendersi da una oscura campagna di colpevolizzazione che non è mai finita.

Nisticò era ancora impegnato in quella difficile partita, il 27 ottobre 1972, quando a Ragusa fu ucciso Giovanni Spampinato.  Mio fratello aveva condotto una clamorosa inchiesta sulle trame eversive neofasciste nel Sud-Est della Sicilia, sugli strani intrecci fra contrabbando, malavita locale, politica collusa con proiezioni che portavano alla grande mafia di Palermo. Inoltre aveva pubblicato in esclusiva i clamorosi retroscena giudiziari di un omicidio ancora oggi misterioso. Giovanni fu ucciso perché si espose e fu lasciato solo da tutti, anche dal suo giornale. Dal suo giornale, come da altri, per distrazione, pigrizia, sciatteria… Se non avessi vissuto per tanti anni in quel giornale,  e poi in altre testate, non avrei mai accettato questa amara conclusione della mia trentennale inchiesta.

Oggi so che i giornali sono macchine infernali che all’esterno danno l’impressione di ingranaggi perfetti che fanno ogni mossa a ragion veduta, ma in realtà si affidano molto al caso e all’improvvisazione, e mentre si preoccupano  della sorte di gente lontana, sconosciuta, non si accorgono di cosa succede ai membri della stessa redazione…

E’ stata una scoperta amara che mi ha spinto a fare qualcosa per aiutare i cronisti che ai giorni nostri si trovano nelle stesse condizioni difficili, di rischio e di isolamento di mio fratello e devono fare i conti con la stessa sordità. La tragica storia di Giovanni è emblematica. Dice come vanno queste cose. Su questo presupposto ho fondato l’osservatorio della FNSI e dell’Ordine dei Giornalisti  “Ossigeno per l’informazione” sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza, che si è rivelato subito un punto di riferimento.

Tornando all’eliminazione di quei tre giornalisti dell’Ora, non si è mai riusciti a trovare un filo unitario evidente che li colleghi in una cornice unitaria. Ma c’è, a mio avviso, un elemento che accomuna le loro storie, e anche quelle dei cronisti che oggi subiscono minacce, intimidazioni, isolamento: ciascuno di loro nel suo ambito, sviluppò con professionalità e coraggio personale la linea del giornale che si caratterizzava con l’attività di inchiesta e di denuncia, di lettura critica e originale delle vicende della politica, della società, della mafia e dell’eversione. La linea che Nisticò inaugurò nel 1958 con la clamorosa inchiesta sulla mafia che ruppe il muro di silenzio indicando nomi e volti dei boss emergenti, in primis Luciano Liggio. Quell’inchiesta documentò il trasferimento dei boss dalla campagna in città, il loro radicamento urbano e i loro collegamenti. Quella inchiesta fu accolta dai boss con un attentato al tritolo contro la tipografia, che però non riuscì a fermare la rotativa, e con minacce di morte ai giornalisti.

Quando  si parla di quella e delle altre grandi inchieste dell’Ora si corre sempre il rischio di scivolare nella nostalgia del bel tempo che fu: si dà a volte la falsa impressone che allora fosse facile fare le inchieste. Non lo era. Fu la particolare natura editoriale di quel giornale che rese possibile il giornalismo d’inchiesta: il fatto che Nisticò oltre a mettere in campo le straordinarie qualità che abbiamo ricordato, forzando le cose riunì in sé il ruolo di direttore e di editore di fatto di un giornale che era di proprietà di un partito che in quella situazione politica era del tutto estranea alla gestione del potere e di conseguenza al di fuori di interessate implicazioni in affari politico-mafiosi. Lo spiega la storia del giornale. L’Ora era stato fondato dai Florio nel 1900, quando Palermo viveva un’età “felicissima”. Dopo alterne vicende, nel 1955 il giornale era stato acquistato dal Pci attraverso l’editore Amerigo Terenzi (1909-1984), lo stesso editore degli altri quotidiani fiancheggiatori del partito (Nuovo Corriere, Paese Sera, Il Paese).

Col consenso di Botteghe Oscure, Terenzi aveva nominato direttore Nisticò, che era allora un brillante caporedattore e notista politico del “Paese” di Roma. Nisticò aveva trentacinque anni, era comunista, per quell’incarico aveva il gradimento di Botteghe Oscure, ma per la sua indole, già allora, come ha scritto egli stesso, era animato ”da un istintivo rifiuto di ogni arroganza e imbecillità del potere, quale esso fosse”. Era cioè un irregolare, un uomo insofferente di discipline e irreggimentazioni politiche ed ideologiche. Il suo giornale espresse quel carattere ribelle, l’idea volterriana che bisogna ragionare sempre con la propria testa. Restano a provarlo i suoi editoriali. L’Ora sotto la sua direzione suscitò entusiasmo ben al di là dell’elettorato comunista, nella più vasta area della sinistra e anche fra i lettori di destra, perfino fra i neofascisti.

Vittorio aveva conosciuto il fascismo, lo aveva combattuto e lo combatteva, ma non condivideva la condanna a priori di nessuna persona né la demonizzazione  degli avversari. Negli anni cinquanta, nel furore dello scontro ideologico,  quella equanimità, che ancora oggi fatica ad affermarsi, era un atteggiamento raro fra i comunisti, e non era pacificamente accettato che un comunista la pensasse così. Ma Vittorio aveva il coraggio delle sue idee e non se ne curava. Appena arrivato a Palermo, diede un primo saggio del suo pensiero irregolare. In occasione della morte del Maresciallo Rodolfo Graziani, a gennaio del 1955, scrisse un ricordo critico ma rispettoso del grande generale che aveva guidato le truppe italiane in Libia fino alla disfatta e poi era stato ministro della guerra di Mussolini nella Repubblica Sociale e grande nemico dei partigiani rossi. Per manifestare le sue posizioni, Nisticò non chiedeva permesso a nessuno. Agiva, mettendo nel conto le prese di distanza e le proteste che potevano arrivare dal suo stesso campo politico, facendosi forte della protezione del fiduciario di Botteghe Oscure, Amerigo Terenzi.

Fece così anche nel 1958, quando pubblicò la grande inchiesta sulla mafia. Dopo l’attentato alla tipografia, non trovò tutte le bandiere rosse schierate dalla sua parte. Avvertì, come ha scritto nel suo libro, ”una spiacevole sensazione di un certo isolamento” anche da parte del Pci. ”La questione mafiosa – ha spiegato – non era musica per le orecchie dello schieramento autonomista in cui la presenza, o magari l’influenza di questo o quel ramo di mafia era in partenza un dato di fatto”. Quel distacco dei dirigenti del Pci verso quella che veniva considerata una attenzione eccessiva dell’Ora contro la mafia, ha sottolineato Nisticò, ”non era semplicemente una distrazione del momento”, era frutto della grossolana attuazione di ”una visione politica” di Palmiro Togliatti e  Paolo Bufalini. Essi avevano invitato ad essere cauti perché ”volevano evitare che un attacco alla mafia indiscriminato, non articolato, o semplicemente moralistico potesse introdurre elementi di confusione e intralciare il coerente sviluppo di una politica tendente all’unità del popolo. Ma ai livelli più bassi – ha spiegato Nisticò – questo si tradusse in confusione di ruoli e, in qualche caso, in forme di acritica coesistenza col sistema mafioso”.

Queste cose Nisticò le scrisse nel 2001 ne suo libro. Ma le aveva già scritte sull’Ora, più o meno negli stessi termini, alla fine degli anni Cinquanta e negli anni  Sessanta, nel fuoco delle polemiche e dello scontro politico. E’ facile immaginare quali scintille ne scaturirono nei rapporti con i permalosi e dogmatici esponenti dell’apparato del Pci. Fece da cuscinetto Amerigo Terenzi, mitico editore di ”Paese Sera” e dell’Ora, massimo sostenitore di Vittorio. Le cose cambiarono nel 1978, quando Enrico Berlinguer esautorò Terenzi, che era in campo dal 1945. Con la sua uscita di scena cominciò il declino di tutta la stampa comunista, dall’Ora, a Paese Sera, all’Unità…

Le prime ripercussioni si ebbero proprio sul giornale di Palermo. La crisi dell’Ora esplose  nel 1978. Due anni prima Terenzi aveva tentato di rilanciare il giornale trasformando il quotidiano del pomeriggio in un giornale del mattino, per avere una più ampia diffusione regionale e un maggior gettito pubblicitario. Fu una sfida aperta ai tre quotidiani storicamente insediati nelle varie aree della Sicilia, legati fra loro da accordi di mutuo rispetto e schierati politicamente sul fronte filogovernativo. Una sfida di quella portata avrebbe richiesto un sostegno finanziario solido, un’operazione di ampio respiro e di lunga durata, e invece la scommessa fu sostenuta debolmente, e dopo appena sei mesi il progetto fu abbandonato.

Intanto la direzione del giornale era passata a Etrio Fidora che aveva mantenuto la linea del giornale nel solco dell’inchiesta e della  denuncia; aveva mantenuto anche il principio di non subordinare inchieste e notizie a opportunismi e alla raccolta pubblicitaria. Se ne ebbe una riprova clamorosa. La concessionaria aveva  ottenuto un grosso contratto, del valore di 300 milioni di lire, circa un terzo del bilancio annuo del giornale del pomeriggio, da una società petrolchimica che aveva aperto una raffineria nel Siracusano, l’ISAB di Melilli. La popolazione di quella piccola città protestava per gli scarichi inquinanti. La grande inviata Giuliana Saladino andò a Melilli, documentò la situazione e descrisse un quadro allarmante. Il giorno dopo la pubblicazione del servizio il contratto pubblicitario fu annullato. Fu un duro colpe per le finanze del giornale. Bisogna aggiungere che qualche anno dopo la popolazione di Marina di Melilli fu evacuata perché l’aria era irrespirabile e le malattie mietevano vittime.

Quando la crisi dell’Ora precipitò, dunque, non c’era più Amerigo Terenzi a togliere le castagne dal fuoco. I funzionari di Botteghe Oscure videro che i conti non tornavano e la direzione del Pci mandò a Palermo Gianni Cervetti, un alto esponente che senza tanti complimenti notificò agli amministratori e al segretario del Pci siciliano, che era allora Gianni Parisi, la chiusura del giornale e la cessazione delle pubblicazioni nel giro di una settimana. A salvare la situazione, come abbiamo detto, fu la scesa in campo di Nisticò, stavolta in veste di editore e garante politico in prima persona, di editore indipendente impegnato nella missione impossibile di far sopravvivere l’unico quotidiano di sinistra del Mezzogiorno  senza compromessi tali da snaturarlo.

Nisticò lanciò quest’ultima sfida, in un’epoca – occorre ricordarlo – in cui ancora si sognava a occhi aperti e a noi tutti sembrava che i problemi si potessero risolvere mettendosi in cooperativa. E comunque, per dieci anni, la scommessa di far sopravvivere L’Ora con una cooperativa  fu vinta. Il giornale era più povero di prima, ma c’era. Le paghe furono ridotte all’osso, ma il bilancio tornò in equilibrio.

Dopo dieci anni, però, nemmeno questo bastò più. Le spese erano aumentate. Si tentò di ridurre i costi realizzando un accordo con il gruppo Espresso per stampare anche Repubblica nella tipografia del giornale. Ma il tentativo fallì, perché l’editore Caracciolo preferì stampare a Catania nello stabilimento di Mario Ciancio, editore della “Sicilia”. Per L’Ora era necessario un assetto aziendale meno artigianale e l’ingresso di nuovi soci. Nisticò lo disse. Prospettò un piano di ampliamento della base societaria. Fu creata una nuova società che rilevò la gestione dalla cooperativa, ma poi a Botteghe Oscure i tutori della proprietà del giornale (questo l’eufemismo che si doveva allora impiegare) bloccarono l’operazione, esonerarono Nisticò, come avevano fatto con Terenzi, e misero da parte l’intero gruppo storico che aveva retto il quotidiano dal 1954 in poi. Il Pci mandò da Roma amministratori tecnici che non avevano esperienza di editoria e dimostrarono subito la loro incompetenza. Ridussero l’autonomia politica del giornale compromettendo il prestigio della testata e le entrate, e dilatarono le spese. Nel giro di tre anni fu inevitabile la cessazione delle pubblicazioni e la messa in liquidazione della società. E’ bene ricordare come andarono le cose a chi a volte celebra acriticamente i fasti del tempo mischiando epoche, stagioni e responsabilità.

Nisticò ha raccontato  anche i particolari di questa triste vicenda nel suo bellissimo libro. Ne ha parlato quasi sottovoce, trattenendo la rabbia e omettendo soltanto la descrizione della disperazione politica e della sofferenza che causò a tutti noi – e soprattutto a lui – la morte annunciata di quel giornale che era una parte di noi stessi.

“Accadde in Sicilia” è il più grande regalo che Vittorio ci ha lasciato. Quando pensò di scrivere il libro, me ne parlò. Voleva pubblicare solo un’antologia dei suoi editoriali. Io protestati, lo spinsi con insistenza a fare molto di più. Devi raccontare, dissi, tutto quello che hai vissuto, fatti, personaggi, aneddoti, ciò ti è passato per la mente e per il cuore, com’è dovere di ogni persona che ha vissuto un’esperienza tanto straordinaria e unica. “Ma è impossibile – rispose -, dovrei rivivere la mia vita, le gioie e i dolori, e non me la sento”. Io fui spietato. Gli dimostrai che era possibile accompagnandolo nei primi passi, aiutandolo a contestualizzare alcuni suoi articoli storici… E nel frattempo altri diedero analoghi importanti contributi e lo spronarono a cimentarsi in quella impresa. Alla fine si lasciò convincere, e per due anni, con fatica quotidiana, sfogliò appunti e collezioni. Fece quel viaggio a ritroso. E scrisse quei due volumi belli da vedere, da leggere e da consultare che raccontano la sua straordinaria esperienza di direttore dell’Ora dal 1954 al 1975 e, successivamente, di editore indipendente.

Quelle pagine ci fanno vedere che la vita ha riservato a Vittorio onore e fama, ma non è stata una passeggiata. Ci dicono quanto i tempi siano cambiati, e non sempre in meglio, per il giornalismo italiano. Ci aiutano a capire quale fu realmente l’esperienza dell’Ora e quale straordinaria avventura visse in Sicilia Vittorio Nisticò. Due vicende che sempre più spesso vengono astrattamente mitizzate, e ciò non è utile. Bisogna conoscere i fatti per capire molte cose. Fra l’altro, perché oggi che i giornali dispongono di strumenti tecnologici molto più potenti di 50 anni fa, oggi che il mondo è cablato e interconnesso, oggi che l’Italia dispone di un aeroporto ogni duecento chilometri, e gli editori possono usare satelliti e reti di computer, hanno rotative full color e gli uffici stampa sono sempre più potenti, oggi con tutto ciò non si può fare quel giornalismo curioso e impertinente, interamente dalla parte dei cittadini, che per alcuni anni riuscì a fare Vittorio Nisticò con il suo piccolo giornale.

Vittorio Nisticò ci ha lasciato il 7 giugno del 2009, dopo una lunga malattia che lo ha reso ancora più magro e sottile e alla fine ha consumato il suo corpo come una candela. Aveva 89 anni e da oltre un anno era molto debole, soffriva e aveva difficoltà a concentrarsi. Ma fino all’ultimo, finché ha potuto, a chi ha avuto la fortuna di frequentarlo ha dispensato lezioni di acume e di giornalismo, e visioni geniali. Era sorprendente scoprire che erano rimasti intatti il suo fiuto giornalistico, la sua capacità di valutare gli elementi essenziale di una qualsiasi notizia, la genialità con cui produceva un titolo. Era sorprendente la straordinaria voglia, che conservava, di sfornare formidabili progetti di giornali, di riviste, di libri, di studi da fare… Negli ultimi tempi mi parò di un libro che voleva scrivere per raccontare la sua straordinaria esperienza giovanile, politica e giornalistica, vissuta nel 1943 a Bari, allora effervescente capitale dell’Italia liberata dal fascismo. Voleva raccontare quel clima e le particolari circostanze in cui conquistò la stima di Aldo Moro, di Tommaso Fiore e di altri grandi personaggi. Mentre la malattia lo consumava, Vittorio progettava, sognava, continuava a insegnarci qualcosa, come aveva fatto per tutta la vita.

A me ha insegnato molte cose: che non bisogna fidarsi delle apparenze, né dei comunicati stampa o delle “veline” che oggi, nell’epoca in cui con facilità si cambia il nome delle cose, sono state  ribattezzate “retroscena”; che non bisogna farsi incantare dal particolare; che le vere notizie non crescono sugli alberi e non sono contenute. Vittorio mi ha insegnato che le notizie facili, le fonti prodighe sono spesso ingannevoli; che la  verità è spesso ben nascosta e per trovarla si deve sudare, e a volte si devono versare lacrime e sangue, si devono mettere in conto rischi, fatica, inimicizie, querele, processi , minacce, ritorsioni, attentati.

Vittorio ci manca, come ci mancano Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Indro Montanelli e altri irriducibili bastian contrari, uomini illustri che hanno messo al servizio della società la loro personale curiosità intellettuale. Vittorio appartiene di diritto a questa categoria di persone, senza le quali la strada ci appare più buia.

 Alberto Spampinato*
*Ha lavorato all’Ora dal 1973 al 1991, negli ultimi anni come capo della redazione romana. E’ quirinalista dell’Ansa, consigliere della FNSI, direttore dell’osservatorio “Ossigeno per l’informazione”.