Cosa ci insegna la storia del cronista del Mattino ucciso il 23 settembre 1985 e di tutti i giornalisti minacciati

GIANCARLO SIANI : L’amara lezione che non riusciamo ad apprendere dopo 25 anni

Non lasciare solo chi si spinge più avanti

di Alberto Spampinato*

Giancarlo Siani aveva appena compiuto 26 anni ed era già un cronista di valore. Aveva imparato molte cose in quello straordinario laboratorio-rivista che fu negli Anni Ottanta, l’ ”Osservatorio per la camorra” diretto da Amato Lamberti. Poi era passato al “Mattino”, come collaboratore della redazione di Torre Annunziata. Era un precario, ma si era fatto valere con clamorosi scoop sulle indagini contro la camorra. Nel 1985, lo avevano trasferito alla redazione di Napoli e  attendeva di essere assunto da una settimana all’altra con un regolare contratto da giornalista. Invece 1l 23 settembre fu assassinato a Napoli, mentre tornava a casa, al Vomero. Il boss Lorenzo Nuvoletta non tollerava che avesse rivelato i suoi misfatti e i suoi legami con i corleonesi di Totò Riina.

L’orribile fine di questo giovane cronista sarà ricordata giovedì a Napoli nell’anniversario della morte con la celebrazione del Premio intitolato al suo nome. Giancarlo era un ”ragazzo del ’77”. Si sarebbe fatto strada nella professione che aveva scelto. In questi giorni compirebbe 51 anni. L’anniversario della sua barbara eliminazione  ripropone una questione che è sotto i nostri occhi e che ci ostiniamo, ancora oggi, a non vedere, nonostante da allora tanti altri giornalisti siano entrati nel mirino di mafie e camorre: anche nella civilissima Italia – e non solo in Paesi lontani, in democrazie giovani o incerte, in Turchia o in Russia – si ricorre a minacce, intimidazioni, e perfino all’omicidio per impedire ai giornalisti di fare il loro mestiere che, fino a prova contraria, consiste nel trovare notizie e pubblicarle. Avviene tutto ciò, in Italia, ma purtroppo ancora non si riesce ad ammetterlo e a trarne le conseguenze. E intanto ciò che sembra impossibile continua ad accadere intorno a noi.
Il caso di Lirio Abbate, il cronista di Palermo minacciato di morte dalla mafia a maggio del 2007, è solo il caso più noto di una lunga lista che negli ultimi mesi si è allungata in modo preoccupante e comprende il giornalista scrittore di Napoli Roberto Saviano, che dal 2006 vive sotto scorta per essere stato minacciato di morte dal clan dei casalesi, una consorteria criminale che tiene nel mirino anche la giornalista del Mattino di Caserta Rosaria Capacchione e, dal 2001, l’ex amministratore locale di Casal di Principe e poi parlamentare Lorenzo Diana. Sono tantissimi i giornalisti presi di mira da affaristi, da criminali, da prepotenti, da potentati che non potrebbero sopravvivere alla luce del sole, sotto i riflettori dell’informazione critica, sotto la lente di un giornalismo attento, curioso, esercitato con coraggio e passione civile.

Uno dei più bersagliati da minacce negli ultimi mesi si chiama Nello Rega. E’ un giornalista della Rai, e non si riesce a fargli avere una scorta né nessun altro tipo di adeguata protezione. E’ un fatto che ci allarma e ci angoscia. Ed è la prova del nove della disattenzione per queste vicende.

Ma quanti sono i giornalisti minacciati? Nel Rapporto 2009, che si riferisce al periodo 2006-2008, l’osservatorio della FNSI e dell’Ordine dei Giornalisti “Ossigeno per l’informazione” ha contato in Italia 61 episodi di minacce e intimidazioni a giornalisti, di cui 9 nei confronti di intere redazioni, e quindi con oltre 200 giornalisti coinvolti. Il nuovo rapporto di Ossigeno per il 2009-2010 conta altri 56 episodi negli ultimi dodici mesi, con 4 interi giornali entrati nel mirino delle intimidazioni, e dunque con un numero di giornalisti più o meno raddoppiato. E’ un quadro impressionante. Ma è solo la parte visibile di un dramma sociale molto più ampio, che è per la massima parte sommerso e, spesso, resta dramma segretissimo e privato di chi viene preso di mira. Rimane sommerso, sconosciuto perché molti giornalisti minacciati non hanno la voce, la forza, i sostegni necessari per denunciare il sopruso, per farne un fatto pubblico, per ribellarsi. E’ un dramma che non va in scena solo in Sicilia, come ci insegnano, appunto, la tragica sorte di Giancarlo Siani, ma anche le vite sotto  protezione di Capacchione e Saviano e altri casi che riguardano il Lazio, la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia Romagna, e soprattutto la Calabria, dove nel corso dell’anno sono stati minacciati 16 giornalisti, ai quali si aggiungono gli 8 dell’anno scorso.  Le minacce e le intimidazioni colpiscono chiunque, in qualsiasi parte d’Italia e in qualsiasi settore del giornalismo o dell’editoria, ma soprattutto occupandosi di criminalità organizzata, non obbedisce alle regole del quieto vivere che consigliano di non trattare notizie sgradite a personaggi potenti e vendicativi. Riguarda chi supera una linea di confine tracciata, a loro vantaggio, dai criminali e dai prepotenti. Una linea invisibile che restringe il campo di osservazione che, legittimamente, doverosamente, è proprio del giornalismo.

Occorre parlare di più di queste cose. Fare sapere a tutti che nelle terre di mafia – e non solo lì – vige questa enorme, inammissibile limitazione della libertà di informazione. Come hanno proposto i dirigenti di International Freedom and Security e del Comitato internazionale per la protezione dei giornalisti di New York, dobbiamo pensare ai nostri cronisti di mafia con la stessa apprensione che proviamo per i cronisti di guerra  mandati in Iraq, in Afghanistan, in altre zone di guerra,. Dobbiamo superare quel luogo comune a cui ho accennato all’inizio, in base al quale pensiamo che certe brutte cose accadano sempre e soltanto altrove.

Dobbiamo partire proprio dal ricordo dei giornalisti italiani uccisi, ricostruire una per una le loro storie, alimentare il ricordo dell’esempio professionale e civile che ci hanno dato e sviluppare una riflessione più generale.  C’è molto da fare in questo campo. Vanno nella direzione giusta iniziative come l’intitolazione a Giancarlo Siani di un’aula della scuola di giornalismo di Napoli, o della sala stampa attrezzata del Comune di Ferrara, il racconto della sua storia attraverso un film delicato e rispettoso della memoria qual è FortApasc di Marco Risi.

Ma bisogna ricordare anche le vittime più trascurate.

So bene che scorrere il rosario delle vittime è sempre triste, è doloroso, crea imbarazzo, fa nascere sensi di colpa. Fa venire voglia di strappare queste pagine di storia e di rimuovere il ricordo di questi lutti.  Non dobbiamo cedere a questa tentazione. Dobbiamo ricordare questi morti, uno per uno. Dobbiamo impegnarci a tener viva la loro memoria, senza retorica, in modo oggettivo, innanzi tutto con un rigoroso lavoro di documentazione. Dobbiamo farlo per noi stessi e per le nuove generazioni.

La storia di Siani, di Mauro Rostagno, di Mario Francese, di Walter Tobagi, di Carlo Casalegno, di Giovanni Spampinato, di Cosimo Cristina, di Mauro De Mauro, di Pippo Fava, di Beppe Alfano, Peppino Impastato, lo ammetto, sono storie che fanno piangere il cuore. Ma dobbiamo conoscerle. Contengono profonde verità, insegnamenti per il presente e per il futuro, come le favole di orchi e draghi, che fanno paura ai bambini, ma li aiutano a crescere. Sono queste le “favole” che dobbiamo raccontare ai giovani giornalisti, a chi frequenta le scuole di giornalismo, a chiunque crede che in una democrazia le informazioni debbono circolare liberamente, a chiunque crede che le fondamenta del futuro devono poggiare su una buona conoscenza del presente e del passato.

La società deve essere grata ai giornalisti che accettano il rischio di maneggiare le notizie più “scomode” e pericolose. Deve considerarli esploratori in avanscoperta sul terreno più esposto alle insidie. Deve considerarli artificieri impegnati a disinnescare ordigni che potrebbero uccidere innocenti. Si dovrebbe riconoscere sempre e più chiaramente che un giornalista morto su questo fronte è un morto sul lavoro, è un caduto  nell’espletamento di un servizio di pubblica utilità.

Tocca a tutta la società, ma innanzi tutto ai giornalisti, riconoscere questo rango ai cronisti uccisi. Dovrebbe essere pacifico, scontato. Ma finora non lo è stato. Lo dice anche la vicenda di Giancarlo Siani. Purtroppo, ancora oggi, il giornalismo fa fatica a riflettere su queste cose e su se stesso: inspiegabilmente stenta a fondare la propria identità sull’esempio dei suoi esponenti animati dai più alti ideali; cade ancora nel vecchio vizio di leggere ogni cosa – perfino queste storie – con le lenti dell’ideologia, della convenienza di parte, di partito o di testata. Queste cose non dovrebbero accadere. Accadono sempre meno, ma accadono.

 *consigliere nazionale Fnsi, direttore di Ossigeno per l’informazione

 (22 settembre 2010)