VIDEO. Il documentario sul Parco degli iblei. Note di regia, quasi un diario

Ragusa, 20 ottobre 2010 – Guardare non è vedere, il vedere presuppone la conoscenza, l’esperienza. Quando abbiamo iniziato questo documentario siamo partiti guardando il territorio: prima studiandolo, poi calpestandolo e gradualmente la vista, distratta dai polmoni e dai muscoli, forse non pronti a tale processo, ha iniziato a vedere. Nel senso che non si limitava a guardare il paesaggio dell’inquadratura, sia esso panoramico o millimetrico, ma si inoltrava a scoprire le leggi che ne regolavano l’assetto. È stato un vedere attraverso. Un conoscere due volte, prima lo spazio e poi l’uomo, che di questo ambiente possedeva le chiavi segrete, offrendolo alle onnivore lenti del nostro progettare l’identità iblea. Un atto di conoscenza e in un secondo momento di riconoscenza.

In punta di piedi, abbiamo visto spalancarsi il brulicante mondo naturale, in apparenza scontato e, invece, foriero di sorprese ogni qualvolta le nostre guide ci mostravano i segni nascosti dei luoghi. Il sollevamento di una pietra ora faceva esplodere una danza di microrganismi, ora scopriva una cavità carsica profondissima, santuario di forme naturali inimmaginabili perché non umane. Come esprimere questo tempo calcificato, estrema verità del territorio che dichiara la sua origine, miocenica e irrappresentabile?
Una goccia c’è venuta in aiuto come unità minima del tempo millenario. Costante, ritmica, carsica. Quella goccia, stillicidio o torrente, ha scavato, inciso, modellato il plateau ibleo componendolo in colate di biodiversità, rivestimento multiforme dell’irregolarità del territorio. Bastava seguire l’acqua e l’inquadratura scivolava, smarrendosi in profondità, per ritrovarsi come sorgente a fondovalle, umido ingresso alla fotosintesi. E da qui una galleria di specie vegetali che l’uomo ha nel tempo classificato, collocato, organizzato, trasformandola in dispensa e immensa farmacia all’aperto.
“Siemu figghi ‘ra timpa pirciata”, e già dall’origine si è destinati e destinatari. Così un massaro ha espresso forse il cuore della civiltà iblea. Dove per “pirciare la timpa” vorremmo intendere il lavorìo costante dell’acqua che, scendendo alla ricerca del mare, consuma, modella e incide la pietra calcarea, per stabilizzarsi nella forma delle cave. Ma vogliamo intenderlo anche come lavorìo dell’uomo che scava, spingendo ai bordi la pietra che lo separa dalla fertilità della terra. Questo costante “pirciare la pietra” è quasi una risalita uterina, testimoniata dall’inumazione dei defunti in posizione fetale nel ventre calcareo delle tombe sicule. Due lavorii, uno naturale e l’altro umano, complementari che si compenetrano nel popolo delle cave.
Cercavamo, nel territorio, il substrato materico del paesaggio, e invece incontravamo sempre l’uomo, il suo avvicendarsi nel tempo, mentre rassettava il perenne e incurante risorgere della natura incontrollata, e in questo suo sopravvivere lasciare i segni mansueti di un’intelligenza selettiva e creativa. E quest’uomo era fuori dal tempo, un ibleo ideale, che dall’alternanza delle popolazioni-dominazioni traeva il meglio, quasi a dimostrare quella chiusa permeabilità che è caratteristica della gente siciliana. Scoprivamo insomma che “Ibleo” non è una definizione ma un grappolo di definizioni, un grappolo di concetti, come si usa dire della biodiversità. La complessità risolta nella semplice armonia di una parola, “Iblei”, che è al tempo stesso luogo e lingua, materia e cultura, acqua e pietra. Territorio multiforme attraversato da saperi eterogenei: geologia, archeologia, botanica, antropologia, etnografia, paesaggismo.
Iblei storie e luoghi di un parco è il racconto di una scoperta. Quella di un territorio, vasto e ricchissimo da cui emerge, chiara e monumentale, un’identità millenaria fatta di natura e lavoro umano. Quella che adesso sembra una contesa, in passato era una relazione, basata sull’ascolto, il rispetto, la fatica nell’adeguare l’esistenza umana alle leggi della natura.
Sequenze di elementi di un Parco che già esiste, nella natura come nella civiltà che lo conserva. In fondo il ripopolamento dei fiumi e la liberazione dei rapaci sono già attività del Parco, e sembra quasi che la sua istituzione sia in ritardo o comunque fuori sync rispetto alla sua urgenza.
Quello che abbiamo notato è l’assenza di una consapevolezza più estesa, quasi che la gens iblea avesse smarrito, nei moderni confini della divisione in province o in municipi, la matrice di un’unica grande origine. Eppure di uomini iblei ne abbiamo incontrati tanti, contadini, apicoltori, “mastri” di muro a secco, massari, umili e orgogliosi allo stesso tempo, termometri viventi di un disagio, ora malinconico ora militante, di appartenere alla terra senza una bandiera condivisa. E in tutti la comunanza del medesimo sentire un legame con il territorio, che nel Parco troverebbe il proprio compimento. Pensiamo che di identità si possa parlare solo quando questa può essere trasmessa, narrata ad una alterità che la possa fare propria. Gli Iblei hanno tantissime storie da raccontare, e il Parco è un testo che deve essere ancora scritto.
 Vincenzo Cascone