Alberto Spampinato a Bologna ricorda la concezione del giornalismo di Giovanni

Mio fratello denunciò il sistema tolemaico del giornalismo locale

L’intervento alla presentazione dell’inchiesta drammaturgica “Il caso Spampinato”. Chi te lo fa fare?”, gli dissero alcuni giornalisti di Ragusa. Gli consigliarono di lasciar perdere, di non rivolgere domande sgradite alle persone importanti. (…) Vigeva e vige ancora in molti giornali questa regola e la convinzione che le notizie siano una merce come un’altra, e perciò un giornale sceglie quelle da approfondire e pubblicare in base alla convenienza propria e dei propri amici e sostenitori. E’ un sistema di pensiero arcaico quanto il sistema tolemaico secondo cui tutti i corpi celesti girerebbero intorno alla Terra…. Mio fratello si scontrò con quel sistema…

astrocarta

di Alberto Spampinato – Bologna, 20 marzo 2012 Scorrere il rosario delle vittime dell’ingiustizia è sempre triste, doloroso, crea imbarazzo, fa nascere sensi di colpa, fa venire voglia di strappare dai libri le pagine più strazianti, fa nascere il desiderio di rimuovere i ricordi dolorosi, a cominciare da quelli che ci toccano da vicino. E invece bisogna ricordare e fare conoscere agli altri storie come questa di mio fratello Giovanni. Bisogna ricordare gli affetti che ci sono stati rubati, le persone che si sono giocate la vita per noi, lottando per un ideale, per affermare i principi a cui teniamo. E’ doveroso. E’ istruttivo. E’ utile. Non dobbiamo.cedere alla tentazione di rimuovere e dimenticare. Dobbiamo ricordare questi morti uno ad uno, fare sapere cosa hanno fatto.

Dobbiamo impegnarci a tenere viva la loro memoria. E dobbiamo farlo senza retorica, in modo oggettivo, con un rigoroso lavoro di documentazione. Dobbiamo farlo per noi stessi e per le generazioni che verranno. Le storie dei giornalisti uccisi in Italia mentre facevano con onestà e rigore professionale il loro lavoro fanno piangere il cuore, ma dobbiamo conoscerle, perché contengono profonde verità, insegnamenti per il presente e per il futuro. Sono storie, che hanno la stessa funzione educativa delle favole degli orchi e dei draghi che raccontiamo ai nostri bambini: mettono paura, ma aiutano a capire la vita e a crescere. Chiunque crede che l’informazione giornalistica sia una infrastruttura essenziale della democrazia deve conoscere queste storie e afferrare il senso di tragedia collettiva che esprimono.

Ficcanaso e provocatore

Giovanni Spampinato era un giovane giornalista della migliore scuola e mentre faceva il suo lavoro di cronista fu accusato di essere un ficcanaso e un provocatore. Faceva domande sacrosante che davano fastidio: non piacevano a gente potente abituata a stabilire d’imperio cosa i giornalisti possono scrivere e cosa invece, per loro convenienza, dovrebbero fingere di non sapere. Giovanni fu ucciso perché non accettò questa pretesa. Faceva domande sacrosante applicando i canoni del giornalismo che fanno prevalere sempre l’interesse generale, l’interesse dei cittadini a conoscere la verità.Giovanni aveva 25 anni.

Da tre anni scriveva per L’Ora. Alcune inchieste clamorose avevano rivelato il suo talento. Quando fu accusato di essere un ficcanaso non capì come altri giornalisti potessero permetterlo e, sfogandosi con me, disse: “Qui la stampa è un’associazione di omertà controllata”. Parlava di un malinteso senso del giornalismo che fa accettare le prepotenze. Parlava dell’autocensura, che è la negazione del giornalismo. All’accusa di essere un ficcanaso, obbiettava: come si fa a cercare informazioni senza fare le domande giuste alle persone giuste? Lui consultava le fonti, analizzava i fatti e per chiarire i punti poco chiari faceva domande, e le formulava pubblicamente. Non conosceva altro modo di fare la cronaca. Non concepiva la compiacenza e neppure la sottomissione del giornalista verso i potenti e i notabili. Pensava che un onesto giornalista, in quanto rappresentante collettivo della pubblica opinione, abbia l’investitura per trattare alla pari i potenti. Aveva una concezione sociale del giornalismo e faceva il suo lavoro con impegno ideale. Perciò continuò a comportarsi come riteneva fosse giusto: come gli avevano insegnato alla grande scuola del giornale L’Ora. Perciò, di fronte a un efferato omicidio non esitò a porre domande sul comportamento di notabili e potenti della sua città.

“Chi te lo fa fare?”

“Chi te lo fa fare?”, gli dissero alcuni giornalisti di Ragusa. Gli consigliarono di lasciar perdere, di non rivolgere domande sgradite alle persone importanti. Loro si regolavano così: censuravano le notizie sgradite a notabili, potenti e amici del loro giornale e non avevano mai problemi! Si vantavano di agire così. Per prudenza, per quieto vivere, per non avere grane e, allo stesso tempo, per compiacere i direttori dei loro giornali e le persone a cui facevano queste riverenze. In effetti agire così evitava fastidi e faceva guadagnare titoli di amicizia e benemerenza presso i redattori e i caporedattori dei loro giornali, che sceglievano le notizie da pubblicare con un criterio di prudenza e di convenienza. Il giornale L’Ora non si regolava così, ma questa era la prassi negli altri giornali siciliani, e tuttora in gran parte lo è. Vigeva e vige ancora in molti giornali questa regola e la convinzione che le notizie siano una merce come un’altra, e perciò un giornale sceglie quelle da approfondire e pubblicare in base alla convenienza propria e dei propri amici e sostenitori. E’ un sistema di pensiero arcaico quanto il sistema tolemaico secondo cui tutti I corpi celesti girerebbero intorno alla Terra.

L’eresia

Giovanni era uno dei contestatori di quel sistema tolemaico, del teorema secondo cui le notizie gravitano intorno agli interessi commerciali, politici e relazionali dell’editore. Giovanni pensava che le notizie devono gravitare intorno all’interesse dei cittadini. Insomma, Giovanni, in questo senso, era un copernicano quanto lo erano i suoi colleghi della redazione dell’Ora e i giornalisti più illuminati della sua epoca che facevano tesoro della dimostrazione della rotondità del globo fatta da Galileo Galilei con il suo cannocchiale. Ma a Ragusa, in quanto galileano Giovanni fu sospettato di eresia, come lo fu all’inizio del Seicento l’astronomo Giambattista Odierna che professava le idee di Galileo e si salvò dall’accusa di eresia lasciando Ragusa.Giovanni invece restò a Ragusa a combattere la sua impari battaglia. Non lasciò perdere. Continuò a fare domande e a scrivere articoli in cui elencava le domande più inquietanti riguardo a un misterioso omicidio. Perciò gli altri giornalisti lo trattarono come un eretico, e le persone infastidite dalle sue domande si sentirono autorizzate a trattarlo come un ficcanaso, e i più forti lo accusarono di essere un provocatore.

La sfida di Giovanni durò sei mesi. Si concluse il 27 ottobre 1972, quando il suo assassino lo attirò in un tranello e lo uccise a bruciapelo con due pistole che si era procurato appositamente. Poi si costituì dicendo: mi ha provocato, mi ha distrutto moralmente e io l’ho distrutto fisicamente. Al processo, la tesi della provocazione fu il cavallo di battaglia dei difensori dell’assassino, che non si fecero scrupolo di denigrare la vittima, di dire che non era un giornalista, ma un ficcanaso, uno che non si faceva i fatti suoi.La tesi era assurda, ma fu accettata, perché l’assassino era figlio di un giudice e a giudicarlo c’erano dei giudici che avevano dei figli e forse per questo furono molto comprensivi. Riservarono all’assassino un trattamento paterno e, alla fine, gli concessero tutte le attenuanti possibili e immaginabili, compresa quella della provocazione. E in cosa consisteva la provocazione?

Negli articoli di cronaca che Giovanni Spampinato aveva pubblicato, nelle sue documentate inchieste, nell’attività giornalistica che lo aveva portato a porre tante domande. Insomma, la provocazione consisteva nel suo mestiere di giornalista galileano.Anche fra i magistrati c’era qualcuno che non credeva all’assioma del Sole che gira intorno alla Terra. C’era, ad esempio, il procuratore generale di Catania, Tommaso Auletta, che al processo d’appello, pronunciando la requisitoria, chiese invano: “Se un giornalista non fa quel che ha fatto Giovanni Spampinato, ditemi, perché esistono i giornali?”. La domanda fu considerata una provocazione e non ottenne alcuna risposta. La giuria non ne tenne conto: la sentenza ridusse infatti la pena dell’assassino sentenziando che era stato provocato. Dunque per avere cercato la verità su un omicidio con le domande che in questi casi fanno i bravi giornalisti, Giovanni fu ucciso e per trent’anni è passata la tesi che non fosse stato un giornalista, ma un ficcanaso e un provocatore.

Trentacinque anni dopo

Poi, nel 2007, quando della vicenda di Ragusa si era perso quasi il ricordo, da uno dei più autorevoli fori del giornalismo italiano arrivò la risposta a quella provocatoria domanda del giudice Tommaso Auletta: nel 2007, alla memoria di Giovanni Spampinato fu assegnato il Premio Saint-Vincent di Giornalismo, il premio di giornalismo più prestigioso d’Italia. Dunque fu riconosciuto, e nel modo più solenne, che era un giornalista. Da quel momento ha avuto inizio una riabilitazione della sua memoria, almeno in alcune parti d’Italia e del mondo, mentre in altre parti del globo il Sole continua a girare intorno alla Terra, Giovanni resta un ficcanaso e in quei luoghi le autorità costituite non osano pronunciare in pubblico il nome di Giovanni Spampinato in quanto eretico e provocatore.

All’inizio non capivo perché la città natale di Giovanni non ha per lui la stessa considerazione che altre città natali riservano ai loro giornalisti uccisi a causa del loro lavoro, a giornalisti che si sono distinti per le stesse doti di coraggio e di imprudenza professionale. E’ vero, anche la memoria di altri giornalisti uccisi è oscurata e indegnamente dimenticata come quella di mio fratello, e non è giusto. Ma è anche vero che per tenere desta la memoria di numerosi altri giornalisti uccisi vengono promossi convegni e manifestazioni pubbliche alle quali intervengono gli amministratori ed i più alti funzionari pubblici. Perché alcune comunità che hanno subito così gravi ferite non sentono il dovere di ricordarle le loro vittime?

All’inizio pensavo che fosse solo una distrazione non ricordare pubblicamente Giovanni, ma adesso so che non é così. Adesso so che a Ragusa, dopo 40 anni, la morte di Giovanni è ancora una ferita aperta. Giovanni rimane un eretico, un personaggio da dimenticare. Le istituzioni pubbliche hanno fatto perfino dei passi indietro rispetto all’impegno di ricordarlo. E’ così. E’ triste. Ma io non dispero: il tempo farà giustizia.

Anche Galileo Galilei è stato a lungo bistrattato. Ma alla fine è stato riabilitato dalla stessa Chiesa che lo aveva condannato, anche se ci sono voluti 350 anni. Ho fiducia che anche il sistema tolemaico dell’informazione prima o poi sarà disconosciuto dappertutto: spero solo che non ci vogliano 350 anni!Nella valutazione di queste cose la magistratura ha fatto più passi avanti di certe amministrazioni cittadine. Credo che ai nostri giorni nessun Tribunale italiano oserebbe qualificare come atti provocatori gli articoli di cronaca di un giornalista. Quei tempi sembrano tramontati per sempre. Qualcosa di profondo è cambiato da allora, ma altre cose purtroppo stentano ancora a cambiare ed è necessario incoraggiare e sollecitare l’adeguamento agli standard più avanzati della nostra civiltà. Questi sono alcuni dei miei dubbi e delle mie speranze. Ne ho altri. Chi vuole conoscerli tutti può leggere il mio libro-confessione: C’erano bei cani ma molto seri- Storia di mio fratello Giovanni ucciso perché scriveva troppo, Ponte alle Grazie, 2009.

Alberto Spampinato