Delitto Tumino. Condannato giornalista Corriere della Sera

In una ampia ricostruzione del 2008, Paolo Di Stefano ha espresso i suoi dubbi sul’efficacia delle indagini sull’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino, ucciso nel 1972 a Ragusa, un oscuro delitto per il quale non è mai stato processato nessuno. L’ex procuratore della Repubblica Agostino Fera, che condusse le indagini sommarie, ha reagito. Condannato anche l’allora direttore del quotidiano Paolo Mieli. Anche il corrispondente del giornale L’Ora Giovanni Spampinato criticò quelle indagini. Fu ucciso qualche mese dopo da uno dei sospettati

OSSIGENO – MILANO, 23 Giugno 2012 – L’ingegner Angelo Tumino fu ucciso a Ragusa quarant’anni fa. Le indagini girarono a vuoto. Nel 1972 il cronista dell’Ora Giovanni Spampinato sollecitò più volte gli inquirenti, prima di essere assassinato da uno dei sospettati di quell’omicidio. Per il misterioso omicidio Tumino le indagini si sono sempre svolte a carico di ignoti e infine, qualche anno fa, l’inchiesta è stata archiviata con un nulla di fatto. Come si comportarono gli inquirenti? Paolo Di Stefano ha criticato il loro operato in un ampio reportage pubblicato il 1 giugno 2008 sul Corriere della Sera. Per quelle critiche è stato denunciato per diffamazione e nei giorni scorsi è stato condannato dal Tribunale di Milano a versare 20 mila euro di danni al magistrato Agostino Fera, il pm che svolse le prime indagini sull’omicidio Tumino e che lo ha querelato. Insieme a Paolo Di Stefano è stato condannato il giornalista Paolo Mieli, che nel 2008 era il direttore del Corriere della Sera.

Il querelante aveva chiesto 350 mila euro di risarcimento. Il Pubblico Ministero, in udienza, ha chiesto l’assoluzione degli imputati. L’autore dell’articolo aveva prodotto i documenti necessari per provare la verità dei fatti richiamati nel suo articolo. Inoltre aveva illustrato, in maniera puntuale, le modalità di redazione dell’articolo.

Le motivazioni della sentenza saranno rese note dopo l’estate. Paolo di Stefano e Paolo Mieli, assistiti dall’avv. Caterina Malavenda,  hanno intanto presentato domanda di appello.

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“Ciò che ho scritto sul caso Tumino si è rivelato puntualmente esatto”

Lettera datata Ragusa, 28 marzo 1972

Cara Angela*,

ti do altri elementi su Quintavalle, elementi che ho raccolto stamattina. Sono convinto che vale la pena andare a fondo nella faccenda, perché il nostro uomo è pieno di contraddizioni, e se il suo passato è burrascoso, il suo presente è, quanto meno, poco limpido. Quello che ho scritto dall’inizio del caso Tumino (quando di Q. non si parlava) nella settimana passata, anche se frutto di illazioni, si è rivelato puntualmente esatto. Avevo scritto che dietro il caso Tumino, c’era qualcosa di molto grosso; e poi, parlando di Delle Chiaie e Quintavalle, ho messo in relazione la loro presenza con il delitto Tumino. Anche qui è venuta la conferma: Quintavalle è stato interrogato, e la sua abitazione ragusana perquisita. Ora lui si mostra preoccupato, e la moglie, poco prima che egli rientrasse a Roma mercoledì (è andato in macchina con uno scagnozzo di Cilia) gli ha telefonato che “c’erano altri guai sul giornale”.

Ma andiamo con ordine. Si chiama Vittorio, a Roma abita in viale (…) e ha uno studio di pittore a Porta San Paolo. Qui è venuto poco prima di Natale, con la moglie e con il figlio Giulio Cesare di 16 anni (quello del tentativo di infiltrazione tra gli anarchici). E’ un tipo molto alto, 1 metro e 90. Da Natale si è allontanato solo per brevi periodi per fare delle scappate a Roma. La moglie e il figlio sono rientrati ai primi di gennaio nella capitale. Dell’altro figlio di cui è stata segnalata la presenza ( un giovane di circa 25 anni coi baffi) non ha mai fatto cenno alla famiglia che ha frequentato assiduamente (persone conosciute casualmente e assolutamente insospettabili).

 

Invece telefonavano, lui e la moglie, giornalmente ad un altro figlio, Gaetano di 21 anni, studente universitario. Ora questo Gaetano sarebbe stato operato di emorroidi, e questo giustificherebbe una sua assenza più lunga del previsto (una settimana). Dice anche di avere due figlie femmine. Sostiene di essere laureato in pedagogia e di avere insegnato disegno e pittura a Roma, Firenze e Tokio (sic!). Dice di essere maestro di karatè. Dice di vivere della vendita dei suoi quadri e ha mostrato assegni di mezzo milione. Ma a volte è costretto a ricorrere a prestiti. Ho visto tre suoi quadri, paesaggi (tra l’altro una chiesa dove si sono svolti i funerali di un suo fratello, e lo studio di Porta San Paolo). Non sono opere d’arte, lo stile è un po’ da cartoline tipo Ottocento, ma mostrano una buona conoscenza della tecnica della prospettiva. Non fa mistero di aver fatto parte della Decima Mas, anzi se ne vanta. Non ha mai fatto il nome di Borghese. Dice di essere stato in carcere (controllare se è stato condannato nel ’46 con Borghese, e per quali reati). Dice di essere nato a Torino, da famiglia vittoriose. Conosce Cilia da vecchia data e l’anno scorso gli ha fatto dono per la campagna elettorale di autoadesivi fluorescenti con la foto di Cilia. Che hanno appiccicato su tutte le insegne stradali..

 

Diceva di essere venuto a Ragusa per costruire un albergo di 250 stanze, con piscina su un terreno dell’avv. Schembari, agrario e fascista. Ma nella zona non si possono realizzare insediamenti turistici, e al comune nessuno da niente del progetto. Dice di avere litigato col figlio di questo Schembari, braccio destro di Cilia, tipo equivoco, perché quest’ultimo temeva che gli fregasse la moglie due mesi dopo il matrimonio, e questa vive a Gela). Dice che farà da padrino al nascituro figlio di Cilia (ma Cilia è separato dalla moglie). Dice anche che rimane a Ragusa perché gli stanno preparando una mostra di suoi quadri.

 

Per la sera del delitto ha un alibi che regge: è stato in compagnia di persone insospettabili dal primo pomeriggio ininterrottamente fino alle 23, mentre il delitto sarebbe avvenuto tra le 19 e le 21. L’articolo su “L’Ora” di lunedì 6 lo ha mandato in bestia e si è mostrato, negli ultimi giorni, preoccupato. Dice che gira molto e che è un giorno qui e l’indomani in America. E’ sbruffone ma su certe cose si controlla. Non ha fatto cenno agli articoli, come non ha fatto il nome di Borghese. Questo quanto so fino a questo momento. Sto raccogliendo altre informazioni a Scicli e Vittoria. Penso che questo tizio sia implicato col traffico illecito di oggetti d’arte e pezzi archeologici, ma che abbia una funzione politica precisa nelle fila neofasciste.

Ciao, ciao,

Giovanni Spampinato

*Angela Fais, segretaria di redazione dell’Ora, si era appena trasferita a Roma. Svolgeva lo stesso lavoro per Paese Sera

vedi la precedente lettera datata 11 marzo

Mio fratello denunciò il sistema tolemaico del giornalismo locale

L’intervento alla presentazione dell’inchiesta drammaturgica “Il caso Spampinato”. Chi te lo fa fare?”, gli dissero alcuni giornalisti di Ragusa. Gli consigliarono di lasciar perdere, di non rivolgere domande sgradite alle persone importanti. (…) Vigeva e vige ancora in molti giornali questa regola e la convinzione che le notizie siano una merce come un’altra, e perciò un giornale sceglie quelle da approfondire e pubblicare in base alla convenienza propria e dei propri amici e sostenitori. E’ un sistema di pensiero arcaico quanto il sistema tolemaico secondo cui tutti i corpi celesti girerebbero intorno alla Terra…. Mio fratello si scontrò con quel sistema…

astrocarta

di Alberto Spampinato – Bologna, 20 marzo 2012 Scorrere il rosario delle vittime dell’ingiustizia è sempre triste, doloroso, crea imbarazzo, fa nascere sensi di colpa, fa venire voglia di strappare dai libri le pagine più strazianti, fa nascere il desiderio di rimuovere i ricordi dolorosi, a cominciare da quelli che ci toccano da vicino. E invece bisogna ricordare e fare conoscere agli altri storie come questa di mio fratello Giovanni. Bisogna ricordare gli affetti che ci sono stati rubati, le persone che si sono giocate la vita per noi, lottando per un ideale, per affermare i principi a cui teniamo. E’ doveroso. E’ istruttivo. E’ utile. Non dobbiamo.cedere alla tentazione di rimuovere e dimenticare. Dobbiamo ricordare questi morti uno ad uno, fare sapere cosa hanno fatto.

Dobbiamo impegnarci a tenere viva la loro memoria. E dobbiamo farlo senza retorica, in modo oggettivo, con un rigoroso lavoro di documentazione. Dobbiamo farlo per noi stessi e per le generazioni che verranno. Le storie dei giornalisti uccisi in Italia mentre facevano con onestà e rigore professionale il loro lavoro fanno piangere il cuore, ma dobbiamo conoscerle, perché contengono profonde verità, insegnamenti per il presente e per il futuro. Sono storie, che hanno la stessa funzione educativa delle favole degli orchi e dei draghi che raccontiamo ai nostri bambini: mettono paura, ma aiutano a capire la vita e a crescere. Chiunque crede che l’informazione giornalistica sia una infrastruttura essenziale della democrazia deve conoscere queste storie e afferrare il senso di tragedia collettiva che esprimono.

Ficcanaso e provocatore

Giovanni Spampinato era un giovane giornalista della migliore scuola e mentre faceva il suo lavoro di cronista fu accusato di essere un ficcanaso e un provocatore. Faceva domande sacrosante che davano fastidio: non piacevano a gente potente abituata a stabilire d’imperio cosa i giornalisti possono scrivere e cosa invece, per loro convenienza, dovrebbero fingere di non sapere. Giovanni fu ucciso perché non accettò questa pretesa. Faceva domande sacrosante applicando i canoni del giornalismo che fanno prevalere sempre l’interesse generale, l’interesse dei cittadini a conoscere la verità.Giovanni aveva 25 anni.

Da tre anni scriveva per L’Ora. Alcune inchieste clamorose avevano rivelato il suo talento. Quando fu accusato di essere un ficcanaso non capì come altri giornalisti potessero permetterlo e, sfogandosi con me, disse: “Qui la stampa è un’associazione di omertà controllata”. Parlava di un malinteso senso del giornalismo che fa accettare le prepotenze. Parlava dell’autocensura, che è la negazione del giornalismo. All’accusa di essere un ficcanaso, obbiettava: come si fa a cercare informazioni senza fare le domande giuste alle persone giuste? Lui consultava le fonti, analizzava i fatti e per chiarire i punti poco chiari faceva domande, e le formulava pubblicamente. Non conosceva altro modo di fare la cronaca. Non concepiva la compiacenza e neppure la sottomissione del giornalista verso i potenti e i notabili. Pensava che un onesto giornalista, in quanto rappresentante collettivo della pubblica opinione, abbia l’investitura per trattare alla pari i potenti. Aveva una concezione sociale del giornalismo e faceva il suo lavoro con impegno ideale. Perciò continuò a comportarsi come riteneva fosse giusto: come gli avevano insegnato alla grande scuola del giornale L’Ora. Perciò, di fronte a un efferato omicidio non esitò a porre domande sul comportamento di notabili e potenti della sua città.

“Chi te lo fa fare?”

“Chi te lo fa fare?”, gli dissero alcuni giornalisti di Ragusa. Gli consigliarono di lasciar perdere, di non rivolgere domande sgradite alle persone importanti. Loro si regolavano così: censuravano le notizie sgradite a notabili, potenti e amici del loro giornale e non avevano mai problemi! Si vantavano di agire così. Per prudenza, per quieto vivere, per non avere grane e, allo stesso tempo, per compiacere i direttori dei loro giornali e le persone a cui facevano queste riverenze. In effetti agire così evitava fastidi e faceva guadagnare titoli di amicizia e benemerenza presso i redattori e i caporedattori dei loro giornali, che sceglievano le notizie da pubblicare con un criterio di prudenza e di convenienza. Il giornale L’Ora non si regolava così, ma questa era la prassi negli altri giornali siciliani, e tuttora in gran parte lo è. Vigeva e vige ancora in molti giornali questa regola e la convinzione che le notizie siano una merce come un’altra, e perciò un giornale sceglie quelle da approfondire e pubblicare in base alla convenienza propria e dei propri amici e sostenitori. E’ un sistema di pensiero arcaico quanto il sistema tolemaico secondo cui tutti I corpi celesti girerebbero intorno alla Terra.

L’eresia

Giovanni era uno dei contestatori di quel sistema tolemaico, del teorema secondo cui le notizie gravitano intorno agli interessi commerciali, politici e relazionali dell’editore. Giovanni pensava che le notizie devono gravitare intorno all’interesse dei cittadini. Insomma, Giovanni, in questo senso, era un copernicano quanto lo erano i suoi colleghi della redazione dell’Ora e i giornalisti più illuminati della sua epoca che facevano tesoro della dimostrazione della rotondità del globo fatta da Galileo Galilei con il suo cannocchiale. Ma a Ragusa, in quanto galileano Giovanni fu sospettato di eresia, come lo fu all’inizio del Seicento l’astronomo Giambattista Odierna che professava le idee di Galileo e si salvò dall’accusa di eresia lasciando Ragusa.Giovanni invece restò a Ragusa a combattere la sua impari battaglia. Non lasciò perdere. Continuò a fare domande e a scrivere articoli in cui elencava le domande più inquietanti riguardo a un misterioso omicidio. Perciò gli altri giornalisti lo trattarono come un eretico, e le persone infastidite dalle sue domande si sentirono autorizzate a trattarlo come un ficcanaso, e i più forti lo accusarono di essere un provocatore.

La sfida di Giovanni durò sei mesi. Si concluse il 27 ottobre 1972, quando il suo assassino lo attirò in un tranello e lo uccise a bruciapelo con due pistole che si era procurato appositamente. Poi si costituì dicendo: mi ha provocato, mi ha distrutto moralmente e io l’ho distrutto fisicamente. Al processo, la tesi della provocazione fu il cavallo di battaglia dei difensori dell’assassino, che non si fecero scrupolo di denigrare la vittima, di dire che non era un giornalista, ma un ficcanaso, uno che non si faceva i fatti suoi.La tesi era assurda, ma fu accettata, perché l’assassino era figlio di un giudice e a giudicarlo c’erano dei giudici che avevano dei figli e forse per questo furono molto comprensivi. Riservarono all’assassino un trattamento paterno e, alla fine, gli concessero tutte le attenuanti possibili e immaginabili, compresa quella della provocazione. E in cosa consisteva la provocazione?

Negli articoli di cronaca che Giovanni Spampinato aveva pubblicato, nelle sue documentate inchieste, nell’attività giornalistica che lo aveva portato a porre tante domande. Insomma, la provocazione consisteva nel suo mestiere di giornalista galileano.Anche fra i magistrati c’era qualcuno che non credeva all’assioma del Sole che gira intorno alla Terra. C’era, ad esempio, il procuratore generale di Catania, Tommaso Auletta, che al processo d’appello, pronunciando la requisitoria, chiese invano: “Se un giornalista non fa quel che ha fatto Giovanni Spampinato, ditemi, perché esistono i giornali?”. La domanda fu considerata una provocazione e non ottenne alcuna risposta. La giuria non ne tenne conto: la sentenza ridusse infatti la pena dell’assassino sentenziando che era stato provocato. Dunque per avere cercato la verità su un omicidio con le domande che in questi casi fanno i bravi giornalisti, Giovanni fu ucciso e per trent’anni è passata la tesi che non fosse stato un giornalista, ma un ficcanaso e un provocatore.

Trentacinque anni dopo

Poi, nel 2007, quando della vicenda di Ragusa si era perso quasi il ricordo, da uno dei più autorevoli fori del giornalismo italiano arrivò la risposta a quella provocatoria domanda del giudice Tommaso Auletta: nel 2007, alla memoria di Giovanni Spampinato fu assegnato il Premio Saint-Vincent di Giornalismo, il premio di giornalismo più prestigioso d’Italia. Dunque fu riconosciuto, e nel modo più solenne, che era un giornalista. Da quel momento ha avuto inizio una riabilitazione della sua memoria, almeno in alcune parti d’Italia e del mondo, mentre in altre parti del globo il Sole continua a girare intorno alla Terra, Giovanni resta un ficcanaso e in quei luoghi le autorità costituite non osano pronunciare in pubblico il nome di Giovanni Spampinato in quanto eretico e provocatore.

All’inizio non capivo perché la città natale di Giovanni non ha per lui la stessa considerazione che altre città natali riservano ai loro giornalisti uccisi a causa del loro lavoro, a giornalisti che si sono distinti per le stesse doti di coraggio e di imprudenza professionale. E’ vero, anche la memoria di altri giornalisti uccisi è oscurata e indegnamente dimenticata come quella di mio fratello, e non è giusto. Ma è anche vero che per tenere desta la memoria di numerosi altri giornalisti uccisi vengono promossi convegni e manifestazioni pubbliche alle quali intervengono gli amministratori ed i più alti funzionari pubblici. Perché alcune comunità che hanno subito così gravi ferite non sentono il dovere di ricordarle le loro vittime?

All’inizio pensavo che fosse solo una distrazione non ricordare pubblicamente Giovanni, ma adesso so che non é così. Adesso so che a Ragusa, dopo 40 anni, la morte di Giovanni è ancora una ferita aperta. Giovanni rimane un eretico, un personaggio da dimenticare. Le istituzioni pubbliche hanno fatto perfino dei passi indietro rispetto all’impegno di ricordarlo. E’ così. E’ triste. Ma io non dispero: il tempo farà giustizia.

Anche Galileo Galilei è stato a lungo bistrattato. Ma alla fine è stato riabilitato dalla stessa Chiesa che lo aveva condannato, anche se ci sono voluti 350 anni. Ho fiducia che anche il sistema tolemaico dell’informazione prima o poi sarà disconosciuto dappertutto: spero solo che non ci vogliano 350 anni!Nella valutazione di queste cose la magistratura ha fatto più passi avanti di certe amministrazioni cittadine. Credo che ai nostri giorni nessun Tribunale italiano oserebbe qualificare come atti provocatori gli articoli di cronaca di un giornalista. Quei tempi sembrano tramontati per sempre. Qualcosa di profondo è cambiato da allora, ma altre cose purtroppo stentano ancora a cambiare ed è necessario incoraggiare e sollecitare l’adeguamento agli standard più avanzati della nostra civiltà. Questi sono alcuni dei miei dubbi e delle mie speranze. Ne ho altri. Chi vuole conoscerli tutti può leggere il mio libro-confessione: C’erano bei cani ma molto seri- Storia di mio fratello Giovanni ucciso perché scriveva troppo, Ponte alle Grazie, 2009.

Alberto Spampinato

AUDIO. Marsala. “Io e mio fratello Giovanni”

radio_itacaIl 27 ottobre 2011, Radio Itaca di Marsala, ha dedicato la prima puntata del programma “Itaca ricorda” a una ricostruzione della storia di Giovanni Spampinato, nel 39° anniversario della sua uccisione. Michaela Di Caprio e Vincenzo Figlioli hanno letto brani del libro di Alberto Spampinato “C’erano bei cani ma molto seri”, Sperling e Kupfer 2009, e hanno intervistato l’autore. “Itaca ricorda” è uno spazio di memoria e impegno civile nato da un’idea di Michaela Di Caprio per assolvere il dovere di ricordare e far conoscere protagonisti, vittime, eventi della nostra storia civile, eventi e personaggi che non dobbiamo dimenticare mai se vogliamo tenere desta la coscienza sociale.

Ascolta la puntata

Delitto Tumino. Nessun elemento per riaprire le indagini

Verso archiviazione pista romanzesca indicata da lettera anonima 

(…) Parliamo dl un incubo che la coscienza ragusana si trascina da decenni: il caso Tumino-Spampinato. Ci sono i presupposti per riaprire l’inchiesta?

La riapertura delle indagini è codificata dal Codice di procedura penale che richiede nuovi elemnti. Ora, sul delitto Spampinato si e avuta una condanna ed è un caso chiuso. Sì, si potrebbe andare alla ricerca di altri scenari, ma è necessario che emerga una pista, che in questi due anni pero non si è avuta. Se precedentemente qualche pista c’è stata ed è stata valutata negativamente cosi doveva evidentemente essere. Quanto al delitto Tumino l’unica cosa nuova che mi è pervenuta è una ricostruzione degna di una fiction, che probabilmente è pure veritiera ma è assolutamente impraticabile. Qualcuno l‘ha veicolata attraverso una figura istituzionale. Si tratta un testo anonimo, scritto su carta leggera con una Lettera 22, che affida ogni prova alla memoria di persone morte. e quindi non verificabili. Continua a leggere

La verità negata del delitto Spampinato

Giovanni, giovane cronista dell’Ora e dell’Unità, fu ucciso in Sicilia il 28 ottobre 1972. Indagava su un altro omicidio. Un caso da riaprire: Mafia e trame nere, nuovi documenti e una procura che non vuole vedere. Accade a Ragusa, oggi come 33 anni fa.

Quando Roberto Campria sporco di sangue e con la pistola ancora in pugno andò a costituirsi, denunciando se stesso per l’omicidio di Giovanni Spampinato, la notte tra il 27 e il 28 ottobre 1972 a Ragusa, in questura dovettero ricordarsi di quella denuncia a suo carico per porto abusivo di armi. Era rimasta nascosta negli uffici di Ps. Qualcuno corse a portarne una copia in procura appena fece giorno. Roberto era il figlio del presidente del tribunale di Ragusa Saverio Campria. Possedeva senza permesso un fucile e due pistole, altre due era andato a comprarle pochi giorni prima a Caltagirone. Erano la Erma calibro 7,65 e la Smith & Wesson calibro 38 con cui sparò a Spampinato che aveva 26 anni ed era un giornalista, corrispondente dell’Ora di Palermo e dell’Unità. Continua a leggere

Erano in molti a temere i servizi di Spampinato

Ragusa, 4 nov 1972 – Ad una settimana esatta dalla barbara esecuzione del compagno Spampinato, l’inchiesta ha compiuto un giro di boa che può rivelarsi decisivo per l’accertamento dei retroscena che l’assassino Roberto Campria, tenta disperatamente di nascondere con quel suo grottesco tentativo di far passare il delitto per un gesto assolutamente immotivato, del tutto gratuito, forse addirittura compiuto in stato di ipnosi.

Una volta fatta giustizia di questo grossolano espediente mistificatorio (ed il Sostituto procuratore generale di atania, Auletta, proprio questo ha fatto, contestando al Campria dopo l’interrogatorio, l’aggravante decisiva della premeditazione oltre a quella della minorata difesa della vittima impossibilitata a difendersi dai colpi di ben due pistole) è giocoforza andare infatti alla ricerca di un movente. E non di uno qualunque, ma di un movente che risponda al duplice requisito della logica e della consistenza. Continua a leggere

C’è una “trama nera” dietro il delitto di Ragusa

Inquietanti retroscena, misteriose confessioni e tanti elementi fanno pensare ad abili e cinici registi. Il giovane omicida strumento dell'”organizzazione”?

Il meccanismo di autodistruzione insito nella strategia del figlio 32enne del presidente del tribunale di Ragusa che ha ucciso il corrispondente de l’ORA e de l’Unità, Giovanni Spampinato, come esso era trapelato dopo l’interrogatorio di mercoledì, è già scattato per la prima volta ieri. Il sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Catania, il cui ufficio sta conducendo, come è noto, l’istruttoria, ha ritoccato infatti l’originario, e per certe omissioni sconcertante, ordine di cattura spiccato contro Campria e vi ha aggiunto due significative aggravanti. Che sono: la premeditazione e le “condizioni di minore difesa pubblica e privata” (omicidio avvebuto di notte, con la vittima nella impossibilità assoluta di difendersi). Continua a leggere