Daniela Ferrara: Che fare a Ragusa dopo il convegno con don Ciotti?

“QUEL MORSO IN PIU’ ”

GIOVANNI SPAMPINATO E L’IMMAGINE DEL GIORNALISMO D’INCHIESTA

Ragusa, 12 mag 2010 – “Nella mia testa si sono aperte migliaia di valvole. Devo versare fuori migliaia di parole o soffocherò. Quindi vi prego di non interrompermi.” (“F.M.Dostoevskij) – “L’Italia è un Paese senza Verità” (L.Sciascia) – Cosa lega Sciascia e Dostoevskij ad un tranquillo pomeriggio ragusano d’Aprile? Apparentemente nulla, eppure chi ha partecipato al Convegno promosso dalle Associazioni “Giovanni Spampinato” e “Libera” sulla figura di Giovanni Spampinato, lo scorso 26 aprile, non può fare a meno di cogliere un sottile filo comune tra queste frasi e gli argomenti trattati. Primo fra tutti

Da Don Ciotti (presidente di “Libera”) al Presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, al Segretario dell’Ass.Stampa Siciliana, il coro di voci che si innalza sulla platea attenta converge su una riflessione unanime: la morte di questo “ardimentoso” giornalista ha lasciato una profonda ferita nel cuore della famiglia e della comunità intera e il ritratto condiviso che emerge dai ricordi di chi lo ha conosciuto ne è la conferma; Giovanni Spampinato era un idealista, uno che prendeva sul serio e con passione la sua professione, che non dava niente per scontato e che metteva al di sopra di tutto il diritto dei cittadini ad essere informati.
Era uno scomodo, cioè, uno che, pur essendo consapevole di quello che rischiava “aveva in testa migliaia di valvole e doveva necessariamente versare fuori migliaia di parole”, finendo per pagare con la vita l’eccessivo amore per la verità, la giustizia, la libertà e, non ultima, la propria città. Una città che, “babba” per definizione, non lo ha ripagato con la stessa intensità ma che anzi lo ha messo nel dimenticatoio, come dimostra il fatto che fino a pochi anni fa la sua esistenza era sconosciuta alla maggior parte dei suoi concittadini.
Eppure, Giovanni Spampinato, è stato un antesignano (probabilmente unica, vera, testimonianza libera) del giornalismo d’inchiesta nella provincia iblea, un precursore dei tempi, un cane sciolto, un uomo che al pari di altri colleghi siciliani (De Mauro, Francese,Fava, Rostagno,Impastato, etc…) fu ucciso per il suo coraggio, punito per aver voluto spingersi oltre la superficie, per aver squarciato il velo di ipocrisia e di falso perbenismo che regnava in una tranquilla città di provincia e per averne messo in luce misfatti e lati oscuri (legami eversivi, loschi traffici) al punto che all’epoca del delitto, si insinuò di una morte “cercata”, conseguenza naturale di quegli “scritti” impudenti e di quelle affermazioni sbandierate senza troppa cura con cui aveva finito per provocare il suo assassino, sospettato di essere l’autore di un precedente omicidio sul quale, come corrispondente ibleo, stava indagando.
Ma la sorte, si sa, non è benevola con i giornalisti coraggiosi e ficcanaso come Giovanni. Oggi come ieri si continua a morire per la “verità” e non solo in Italia che, come ci ricorda Sciascia, è per antonomasia il Paese senza verità.
L’ultimo rapporto dell’UNESCO (Agenzia delle Nazioni Unite incaricata di difendere il principio della libertà di stampa e di espressione sancito dalla Carta di S.Francisco), presentato a Parigi il 25 Marzo scorso e passato, tra l’altro, sotto silenzio, lancia dati allarmanti sugli attacchi costanti alla libertà di stampa e sulle stragi di giornalisti uccisi per colpa del “dovere di cronaca”, ben 125 in tutto il mondo nello scorso biennio (2008-2009) di cui solo una minima percentuale riguardante i corrispondenti di guerra.
Già, perchè è questo il paradosso: oggi è più rischioso cercare di esercitare con imparzialità questo mestiere in Paesi dove regna la Pace e vige la cosiddetta Libertà di stampa che in quelli tradizionalmente funestati da drammatiche e violente situazioni interne. Si è più soggetti ad intimidazioni, minacce e condizionamenti quando si tenta di raccontare senza filtri retroscena compromettenti di personaggi politici, di sospette trame economiche, di abusi, frodi e scandali di ogni tipo e in ogni settore del vivere civile.
“Meglio ladro che giornalista”, tuona Marco Travaglio per il quale il mestiere del giornalista oggi in Italia è diventato una “via crucis fra denunce civili e penali, garanti della privacy ed esposti all’Ordine (per quelli televisivi, anche Vigilanza del Parlamento, Autorità delle comunicazioni e Governo) contrariamente a quello che accade, per esempio, negli Stati Uniti dove il giornalista deve solo stare attento a controllare che quel che si dice sia vero.
Oggi la parola “reportage” rimane un vezzo elitario, per quei pochi della categoria che ancora si ostinano a voler onorare la professione con onestà e deontologia (Milena Gabanelli su tutti), perché è sempre più difficile realizzare un’inchiesta, narrare i fatti senza veli anche dopo un attento e serio lavoro di verifica delle fonti. Perché occorre trasformarsi in detective privati, rovistare dove non è permesso, districarsi abilmente tra contatti pericolosi, fonti contaminate e pressioni politiche e per un iscritto all’Ordine che viene pagato una miseria ad articolo quello del reporter è solo un’utopia masochista.
Da qui, probabilmente, la crisi e la profonda trasformazione tuttora in corso nel settore della professione giornalistica (su cui incide anche l’evoluzione tecnologica e l’utilizzo del web come viatico immediato di notizie) e la scelta, in generale, di optare per un’informazione più morbida, senza grossi rischi, che privilegi notizie gossip e faccia leva sulla curiosità da pettegolezzo della maggior parte dei destinatari. L’informazione va perdendo, così, il suo ruolo sociale, diventa sempre più un prodotto industriale, una forma di pubblicità perenne, aumenta la pluralità ma non la consistenza (non c’è una reale conoscenza della notizia), non si riesce più a distinguere tra comunicazione e informazione e cambia finanche la figura del giornalista, più tecnico che scrittore, più omologato che indipendente e, conseguentemente, il suo rapporto con il territorio. Si è meno incline a scavare, ad ascoltare e a confrontarsi e più, invece, a scegliere, mediare e interpretare le notizie direttamente on-line. Con il rischio di passare per “giornalai” più che per “giornalisti” perché manca il reale approfondimento, quel “morso in più” di cui parla Don Ciotti a proposito di Giovanni Spampinato e del giornalismo d’inchiesta, quell’impegno misto a “qualcosa in più” che è tipico di chi ama incondizionatamente la propria terra e si batte quotidianamente per la “Verità” e la “Libertà” di informazione.
Ritornando a dove siamo partiti e, cioè, al convegno e a Giovanni Spampinato, è d’obbligo allora una riflessione. La sua morte (come quella di altri colleghi che hanno preceduto o seguito il suo esempio), alla luce di quanto abbiamo detto finora, è valsa a qualcosa? Perché evidentemente siamo un po’ lenti a capire. Ci sono voluti ben 35 anni, due premi prestigiosi (premio S.Vincent di giornalismo nel 2007 e premio Mario Francese) e l’attività irrefrenabile e certosina del fratello (attraverso convegni, articoli, interviste,iniziative) per riabilitare la figura di questo “vivace” cacciatore di notizie e riconoscerne il valore di cittadino impegnato e professionista zelante. Ora è tempo che ognuno di noi faccia la sua parte. Tocca alla popolazione iblea, quella onesta e cristiana, almeno, continuare a promuovere la sua figura e il suo lavoro, perché essa ha il dovere e la responsabilità morale di coltivarne la memoria e di trasmetterla alle nuove generazioni, affinché l’amore per la verità e l’ansia di giustizia siano ancora e sempre valori fondanti del nostro modo di vivere la vita, prima ancora da cittadini consapevoli che da giornalisti indignati.

Daniela Ferrara
su www.operaincerta.it