Giovanni Spampinato. L'opposizione di sinistra, A. II, n. 16-17, 28 novembre1970

Ancora promesse per il Belice. Il governo fuori legge!

Nei giorni scorsi, 1.200 terremotati sono partiti dalla Valle del Belice per una manifestazione di protesta a tempo indeterminato davanti al Parlamento, chiedendo che il governo mantenga finalmente le sue promesse e avvii la ricostruzione e la ripresa economica del loro martoriato territorio.

È questa la seconda manifestazione del genere; nel marzo ’68, circa 1.500 terremotati restarono attendati per tre giorni e tre notti in piazza Montecitorio per conquistare una legge più giusta di quella votata in quei giorni dal Parlamento. Ora ritornano per chiedere che quella legge venga applicata.

La manifestazione di protesta è stata promossa dal Centro Iniziative e Studi di Partanna, dal Comitato Antileva, dal Comitato Intercomunale, e scaturisce dal fatto che ” nella Valle del Belice non c’è ancora una sola famiglia che sappia dove sorgerà la propria casa”.

In un manifesto si legge : ” Il governo nella Valle del Belice (in quante Valli del Belice?) si è messo impunemente fuorilegge calpestando obblighi e scadenze fissate dal Parlamento per la ricostruzionee lo sviluppo della zona terremotata. A chi vuole case, dighe, industrie impone galera, servizio militare, emigrazione”.

Quella che si determina nel Belice col terremoto del gennaio ’68 è certo una situazione limite: su un territorio economicamente depresso, socialmente disgregato, su una popolazione in cui l’emigrazione massiccia ha aperto larghi vuoti, lasciando una massa di disoccupati e sottoccupati, si abbatte crudelmente una tragedia spaventosa, gigantesca. Centinaia i morti sotto le macerie delle povere abitazioni di tufo, più di centomila i senzatetto.

Il sisma aggrava una situazione già altamente drammatica, mette allo scoperto una miseria antica, condizioni di vita anacronistiche, indegne di un paese civile. Il sisma accelera un processo di maturazione politica in corso da anni fra quelle popolazioni, che avevano combattuto battaglie memorabili per la realizzazione della diga sul fiume Belice. Il sisma pone drammaticamente la popolazione di fronte alle manifestazioni più brutali del disinteresse dello stato per lo sviluppo delle zone depresse.

Il governo promette, prende solenni impegni: non solo si avvierà la ricostruzione, ma si creeranno migliaia di posti di lavoro. Ma nella legge subito approvata dal parlamento non si fa parola dello sviluppo economico: 147 miliardi andranno all’assistenza, 165 alla ricostruzione, non un soldo per lo sviluppo economico.

Ma la ricostruzione tarda ad iniziare. La popolazione protesta, si promuovono decine di assemblee, si de nunziano le inadempienze del governo. All’inizio del ’69, la popolazione dichiara il governo fuorilegge. Non si pagano le tasse. Nel ’70 i giovani di leva decidono di rifiutare il servizio militare finché non saranno realizzati gli obiettivi di sopravvivenza della popolazione. Lo stato risponde con la repressione, con le denunce e le condanne.

Analizzando la propria situazione, scontandolo sulla propria pelle, la popolazione del Belice scopre i meccanismi dello sfruttamento, la natura classista dello stato, individua nello stato stesso il proprio avversario, il nemico con cui fare i conti. Il Belice non è fenomeno isolato. Quanti Belici ci sono in Italia?

Il sottosviluppo del Belice è il sottosviluppo della Sicilia, del Mezzogiorno. La questione meridionale non è un accidente storico, è una scelta dei governi che si sono succeduti in Italia da un secolo a questa parte, dalla unificazione ad oggi. Oggi come ieri il sottosviluppo del Mezzogiorno risponde a delle precise esigenze di sviluppo del capitale nazionale ed internazionale. Nel dopoguerra i meccanismi di razionalizzazione delle contraddizioni generate dal capitalismo sono divenuti più efficienti, sono stati pianificati a livello internazionale.

Con la NATO, col MEC, con altre istituzioni economiche, finanziarie e militari si è proceduto ad una rigida, funzionale divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Al Mezzogiorno depresso il neocapitalismo ha assegnato il ruolo di inesauribile riserva di manodopera a basso prezzo, per calmierare il mercato del lavoro, e di mercato di consumo dei prodotti delle industrie del Nord. Il Mezzogiorno è anche il terreno di coltura di legittime insoddisfazioni che possono essere facilmente utilizzate a fini reazionari ed antidemocratici da parte delle forze oggettivamente responsabili del sottosviluppo (vedi i recenti fatti di Reggio Calabria).

Tutto questo, attraverso un lungo processo di presa di coscienza, di maturazione politica e civile, ha capito la popolazione della Valle del Belice. E ha capito anche un’altra cosa, elementare eppure difficile da individuare, per i pesanti condizionamenti storici ed ideologici a cui siamo soggetti: l’avversario da combattere, nel Mezzogiorno più che altrove, è lo Stato stesso, in prima persona.

Mentre altrove, nel triangolo industriale, nelle zone economicamente sviluppate, si può combattere il capitalismo direttamente, con l’arma dello sciopero che, paralizzando la produzione, lo costringe a trattare e a cedere; nel Mezzogiorno ciò non è possibile, poiché lo scio pero non può paralizzare la produzione dove non si produce niente, ha un carattere puramente dimostrativo. Allora bisogna combattere il capitalismo combattendo il suo strumento più diretto di oppressione, lo stato: rifiutandosi di pagare le tasse, rifiutandosi di prestare servizio militare.

Questa impostazione del lavoro politico, rivoluzionario si può discutere, si possono muovere delle critiche di fondo. Si tratta comunque di una esperienza importante, da tenere presente nella definizione dei compiti della sinistra di classe del Mezzogiorno, in un momento in cui si fanno più drammatiche che mai, per i tentativi di inserimento strumentale a fini reazionari ed autoritari messi in atto dalle destre, le difficoltà di iniziativa della sinistra.

Le destre hanno facile gioco, in assenza di un forte proletariato industriale organizzato (mentre il proletariato agricolo viene assottigliandosi e perdendo peso politico autonomo, decimato dalla ristrutturazione fondiaria e dall’emigrazione massiccia) nel proporre obiettivi di lotta campanilistici e falsamente rivoluzionari alla massa disperata dei sottoccupati meridionali.

Per questo si impone alla sinistra, urgentemente, un ampio dibattito che permetta di individuare le forze in gioco, gli obiettivi di lotta, la strategia da adottare per una inversione decisiva, rivoluzionaria, delle tendenze di sviluppo del Mezzogiorno e del Paese.

Giovanni Spampinato

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