Intervento di Franco Nicastro, presidente dell'Ordine Giornalisti della Sicilia

A Ragusa il giornalismo di Giovanni, quello dell’Ora, era inconcepibile

Questo brano è tratto dall’ intervento pronunciato il 7 nov 2002 a Ragusa durante la presentazione del libro del direttore storico del giornale L’Ora, Vittorio Nisticò: “Accadde in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’Ora”, Sellerio Editore

Ragusa, 7 novembre 2002 – Il caso di Giovanni Spampinato si intreccia con la storia di un giornale che praticava un giornalismo d’inchiesta, e soprattutto di denuncia, con caratteri assolutamente originali. In un’epoca in cui l’informazione politica era fatta per millecinquecento lettori (come acutamente spiegava in un saggio  Enzo Forcella) e i giornali si rivolgevano comunque a un’élite, a Palermo c’era un piccolo giornale che parlava con il linguaggio e la concretezza dei fatti. Nel lavoro di quella redazione si potevano riconoscere tanti altri caratteri che le davano un’identità molto forte: una tensione ideale, una visione etica del proprio ruolo, perfino una funzione pedagogica, come l’ha definita Michele Perriera.

Paradossalmente questa falsa maschera perbenista non era stata intaccata neppure da un delitto, quello di Angelo Tumino ex consigliere comunale del Msi, ucciso a Ragusa il 25 febbraio 1972 in circostanze tutt’ora non chiare. In quell’omicidio si intrecciavano storie private, commerci e traffici misteriosi tra personaggi misteriosi: una sequenza di fatti che sfiorava uno dei rampolli più protetti della città, Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale. Gli altri giornali avevano trattato l’affare con il neutro distacco della cronaca, applicando cioè la cifra informativa di quel tempo. Spampinato se n’era invece occupato con una diversa sensibilità culturale e una forte curiosità professionale. Era stato subito isolato e messo nelle condizioni di non nuocere più. E dopo che, il 27 ottobre 1972, Roberto Campria uccise Giovanni, nella logica di quel metodo, Giovanni fu messo sotto accusa da una linea difensiva dell’imputato, prontamente sposata da qualche giornale siciliano. E così la vittima diventò colpevole, e il colpevole vittima. Per fortuna il rovesciamento dei ruoli non superò l’esame della stampa nazionale che proprio in quegli anni, a partire dal Corriere della Sera, viveva un profondo rinnovamento della cultura giornalistica. In altri momenti sull’uccisione di un cronista di periferia sarebbe sceso il silenzio. Stavolta l’agguato contro il cronista di frontiera accese i riflettori del Paese. Cogliendo le motivazioni profonde del caso, Mario Genco su L’Ora lo definì un “delitto in nome collettivo”. Era simbolicamente descritto in questo giudizio il giro delle coperture e delle solidarietà date all’assassino. Il fatto più significativo fu la reazione del mondo cattolico  contro i giornali che, con le loro reticenze, avevano offerto una copertura a una classe di “intoccabili”, mentre Giovanni Spampinato e il suo giornale avevano indotto un’intera società a fare un doloroso esame di coscienza. Al processo di Appello a Catania per il delitto Spampinato, il magistrato Tommaso Auletta, incaricato di rappresentare la pubblica accusa, difese la vittima e la sua attività giornalistica con queste parole: “Se non sono questi i compiti dei giornalisti allora si possono abolire i giornali”. Questo giudizio poteva essere accolto in Italia come il patrimonio morale, e condiviso di un paese moderno e maturo. Nel 1972 a Ragusa non lo era.