Progetto. Pubblicare tutti gli articoli di Giovanni. Maggio 2008

Leggerli in sequenza è più avvincente di un giallo

Ragusa, 12 maggio 2008 – In questa intervista al mensile Narcomafie, Alberto Spampinato parla del progetto di rendere fruibili  tutti gli articoli di suo fratello pubblicati su L’Ora e l’Unità nel 1969-1972, ormai introvabili. L’idea è di raccoglierli in una antologia, in ordine cronologico, con piccole note di collegamento e di  inquadramento. Quelle appassionate inchieste costarono la vita al cronista Giovanni Spampinato. Parlano di delitti ancora oggi irrisolti.

Il giornalismo in ostaggio – Dal mensile Narcomafie Maggio 2008

TORINO, maggio 2008 – Sta preparando una raccolta integrale e ragionata delle inchieste giornalistiche che Giovanni Spampinato, suo fratello, pubblicò su “L’Ora” fra il ‘69 e il ‘72. Saarà cura di Alberto, quirinalista dell’Ansa, ricordare che per quei lavori il cronista pagò con la vita. “Con gli anni – afferma Alberto – la sua limpida figura e la sua storia appaiono sempre più emblematiche delle difficili condizioni in cui si svolge, ancora oggi, il lavoro del cronista di provincia, in tutta Italia, e non solo in Sicilia. La vicenda fa comprendere quali insufficenze, reticenze, distorsioni impediscono a notizie di rilevante interesse generale di approdare alle pagine dei giornali, con evidente danno sociale”.

Alberto, ci descrivi in breve il contenuto del libro?

Sto montando in sequenza cronologica tutte le inchieste di Giovanni sui neofascisti siciliani che si organizzavano clandestinamente e sull’omicidio di un ingegnere, Angelo Tumino, che fu ucciso a Ragusa proprio mentre uscivano quelle inchieste: nelle indagini furono coinvolti proprio alcuni protagonisti delle inchieste di Giovani sull’eversione nera. Fra un articolo e l’altro voglio inserire brevi note di inquadramento storico e alcuni brani delle tantissime lettere che io e Giovanni ci scambiavamo. In quegli anni io studiavo ingegneria a Pisa. Il montaggio è molto efficace. Dà il ritmo del romanzo. Aiuta a capire cosa ci passava per la testa e cosa ci succedeva intorno. Fa vedere cosa pensava Giovanni mentre scriveva e scopriva, ad esempio, l’intreccio tra le inchieste sui neofascisti e le indagini sull’omicidio Tumino.

Qual è il contenuto del carteggio?

Giovanni mi raccontava il suo lavoro e cosa succedeva a Ragusa, e mi confidava le sue gioie, le sue amarezze, i progetti che faceva, ragionava sui pensieri che di volta in volta lo assillavano. Scrivendoli li analizzava e li “sistemava”. Sia chiaro, le lettere non contengono rivelazioni. Dicono quali emozioni provava mentre scopriva quelle cose e le scriveva. Fanno vedere lo spirito con cui Giovanni portava avanti il suo lavoro. Anche questo è importante. Era bravissimo con la scrittura. L’ho sempre invidiato per la facilità, l’eleganza e la straordinaria versatilità con cui usava la penna. Io facevo in tempo a rispondere a una lettera su tre. Rileggendole, ci ho trovato una cronaca minuziosa di quell’ultimo periodo. E anche la dimensione umana di Giovanni, la sua formazione,  la sua insofferenza per l’ambiente asfittico di Ragusa, una realtà chiusa e periferica. Allora lo era molto più, era davvero un punto terminale del mondo.

Per quali ragioni il caso Spampinato ha subito un inabissamento?

E’ una storia complicata da raccontare, accaduta in una periferia poco frequentata dal grande giornalismo, dove il giornalismo di inchiesta forse non si sarebbe mai visto se non fosse stato per quel rompiscatole di Giovanni. A Ragusa il ruolo tradizionale ed accettato dell’informazione è quello di consolidare il potere economico e politico celebrandolo in modo retorico, ufficiale, senza mai guardare dietro la facciata. Purtroppo ci sono vaste zone dell’Italia in cui la retorica sostituisce l’informazione. Tornando all’oscuramento della vicenda di Giovanni, non dobbiamo dimenticare che è morto anche “L’Ora”, il giornale per cui Giovanni scriveva; che è scomparso pure il partito a cui Giovanni faceva riferimento, il Pci, e che l’Unità, l’altro quotidiano di cui Giovanni era corrispondente, da tanti anni non vuole saperne del suo cronista assassinato. È come se la memoria di Giovanni fosse rimasta “orfana”.

Ma adesso è tornata viva, anche grazie al racconto che ne hai fatto nel libro Vite ribelli, uscito qualche mese fa da Sperling & Kupfer, Perché questa ‘inchiesta sul movente’, come l’hai definita tu, non l’hai scritta prima? 

Io ho sempre sperato che qualcun’altro si occupasse di questa storia, che non è solo mia. Io non ne avevo la forza. Alla fine, dopo trent’anni, quando stava svanendo qualsiasi ricordo, mi sono fatto forza e ho fatto il lavoro. Insomma, alla fine ho accettato di recitare la parte del parente delle vittima, che deve darsi da fare in prima persona per proiettare anche l’immagine pubblica del suo lutto: per fare quello che ti aspetteresti facessero la società, le istituzioni, spontaneamente. Se non fai attivamente il familiare della vittima, anche le persone politicamente più comprensive ti lasciano solo.

In che senso la personalità di Giovanni era controcorrente, “ribelle”?

‘’Perché non riusciva a piegarsi alle regole della rassegnazione, della convenienza del quieto vivere. Era una persona mite, tranquilla, inoffensiva. Però sulle idee, sui principi, non transigeva. Ad esempio, quando vide che gli altri giornalisti, per paura o per quieto vivere, non scrivevano che tra i primi sospettati e interrogati per l’omicidio di Angelo Tumino compariva Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale di Ragusa, uno che lo accompagnava mentre comprava e vendeva roba d’antiquariato, Giovanni si ribellò nel senso che non riuscì a far finta di nulla. Si ribellò a questa cosa, pur essendo conscio dei rischi, dei pericoli a cui andava incontro. Li avvertiva e si sforzava di minimizzarli, per esorcizzarli…

A tuo avviso, quali sono gli aspetti più oscuri della vicenda?

Il vero movente per cui fu ucciso Giovanni. I rapporti fra Tumino e il giudice Campria. Il mancato trasferimento dell’inchiesta penale per l’omicidio Tumino ad un’altra città. Ci sono molti elementi oscuri, non so se dopo quasi 40 anni si vorranno e si potranno chiarire. Per me resta misteriosa anche la figura dell’ingegnere Tumino. Di Giovanni si sa tutto anche nei dettagli. Vita morte e miracoli. Di Tumino si sa solo che era un professionista di Ragusa e aveva 48 anni quando fu ucciso. Non si sa esattamente chi fosse stato prima e che tipo di attività svolgesse veramente per vivere. Conosceva alcuni neofascisti locali, ma non si sa se e fino a che punto fosse interno a trame eversive. Non è mai venuto fuori perché dell’inchiesta sul suo assassinio, dopo la morte di Giovanni non se n’è più occupato nessuno, nessuno ne ha più parlato. Un’altra cosa che, secondo me, non si è mai capita bene è la guerra che si scatena dentro il Palazzo di Giustizia di Ragusa dopo l’omicidio TuminoÈ una cosa che mio fratello percepisce, ma di cui non riesce ad avere elementi precisi. Solo dopo la morte di Giovanni si seppe che i veleni nel palazzo di giustizia di Ragusa erano così carichi che il presidente del Tribunale Saverio Campria inviò un memoriale, credo al Csm, per denunciare una lotta ingaggiata per indurlo a lasciare Ragusa. Nel denunciarlo ricorda di aver già presentato la stessa denuncia ai suoi superiori un mese e mezzo prima, cioè qualche settimana prima che suo figlio uccidesse Giovanni. E’ strano che quei memoriali non abbiano avuto rispondenza. Non si è neppure capito a chi indirizzo la denuncia. E’ incredibile che, dopo 36 anni, ancora non se ne sappia niente.

Hai idea del perché l’inchiesta Tumino restò a Ragusa?

Questo è forse l’aspetto più oscuro dell’intera vicenda: la mancata applicazione della legittima suspicione dato che nell’indagine era coinvolto il figlio del presidente del tribunale di Ragusa. Perché l’inchiesta non fu trasferita in un’altra città? Come fece un magistrato di non altissimo rango e di una piccola città a tenere sotto la sua ala protettiva l’inchiesta penale per omicidio in cui era coinvolto suo figlio? Mi sono sempre chiesto: chi proteggeva quel magistrato

Che cosa servirebbe per far luce su questo caso?

Qualcuno convinto che sapere la verità, anche su fatti così lontani nel tempo, è importante, è necessario per la salute di una società. Non ho trovato molta gente disposta ad ascoltare queste cose. Penso che non ci sono limiti di tempo per fare verità, per sanare ferite inferte nel corpo della società, ferite che non guariscono finché non arriva la verità. Intendiamoci, a questo punto io e i miei familiari non ci aspettiamo più nessuna riparazione. Personalmente, credo che la giustizia è una cosa che si deve compiere subito e si deve realizzare in tempi brevi., Una città, una comunità sana, giusta, in cui si verifica un fatto così  grave ha due modi di viverla: o mette la polvere sotto il tappeto e dimentica – ed è quello che è successo a Ragusa – oppure fa di tutto per chiareire la cosain modo da evitare che possa succedere ancora.

La Commissione parlamentare antimafia aveva acquisito gli atti giudiziari che vedono sotto inchiesta magistrati che indagarono sul delitto per cui Giovanni fu assassinato. Cosa è stato accertato.

Purtroppo l’iniziativa è stata azzerata dallo scioglimento anticipato delle Camere. Spero vivamente che la Commissione Antimafia che si formerà nel nuovo Parlamento riprenda e sviluppi il lavoro, perché quello era un punto di partenza importante. La Commissione aveva costituito al suo interno un comitato di lavoro denominato “mafie, vittime, informazione” che aveva in programma proprio l’approfondimento di tutte queste vicende – dei giornalisti uccisi, delle vittime, dei capitoli che ancora sono aperti in cui si aspetta una parola di verità – e anche l’intenzione di aprire un’indagine per capire quali sono i problemi dei giornalisti che si occupano di queste notizie così delicate, cosa c’è di ricorrente in tutte queste storie.

Tu, in veste di consigliere nazionale della Federazione nazionale stampa italiana, che cosa proponi?

Io sostengo che se in Italia non si fa più come una volta il giornalismo d’inchiesta è per problemi molto seri che andrebbero affrontati innanzi tutto sul piano editoriale, ma anche a livello organizzativo, all’interno delle redazioni, per limitare i rischi dei giornalisti che fanno questo lavoro, come si fece in Italia quando si manifestò in tutta la sua violenza il terrorismo. Poi non si è fatto più niente. Si tratta di una grossa lacuna, soprattutto per l’informazione sulla mafia. Io sto divulgando questa problematica partendo dallo spunto della storia di Giovanni e dal suo carattere di attualità. La Federazione della Stampa si sta muovendo. La mia scommessa è di portare il sindacato dei giornalisti a fare di questi temi uno dei pilastri delle sue iniziative. Penso in particolare all’aspetto deontologico del giornalismo di mafia. Ho lanciato questo slogan: anche i giornalisti, a modo loro, pagano il pizzo. Dobbiamo chiederci se l’autocensura, quella quantità di notizie che rimane inedita per effetto della violenza, non sia una forma di pizzo che i giornalisti sono costretti a pagare. Se è così, perché i giornalisti con i loro organismi di categoria non dovrebbero fare qualcosa di simile a quello che sta facendo Confindustria, che impone ai propri soci di non pagare tangenti alla mafia? È una questione aperta ed è già importante che si inizi a discuterne. Che si chiarisca anche fino a che punto un cronista può lasciare certe notizie nel cassetto invocando il pericolo, lo stato di costrizione, e dove invece l’autocensura sconfina in comportamenti meno nobili e deontologicamente non giustificabili.  s.b.